
Mi sarebbe difficile spiegare ai lettori le cause della rivoluzione che scoppiò a Lima nel gennaio 1834 e delle guerre civili che ne seguirono. Non ho mai capito su che cosa i tre pretendenti alla presidenza fondassero i loro diritti davanti ai propri sostenitori. Le spiegazioni che mio zio mi ha dato al riguardo non sono state molto chiare. Quando l’ho chiesto a mio cugino Althaus, egli mi ha risposto sorridendo: “Florita, da quando ho l’onore di servire la repubblica del Perù, non ho ancora visto un presidente il cui titolo non fosse contestabile… Ci sono stati anni in cui c’erano ben cinque governanti che dicevano di essere stati regolarmente eletti.”

Ricordo che il giorno in cui la notizia è arrivata da Lima ero a letto malata e stavo parlando con mia cugina Carmen della vanità delle cose umane. Potevano essere le quattro. All’improvviso, si è precipitato in camera mio cugino Emmanuel con aria spaventata e ha detto:

“Ebbene – ha detto mia cugina senza minimamente scomporsi e scuotendo la cenere dal sigaro – va a raccontare tutto a don Pio de Tristan. Questi avvenimenti interessano lui, che può temere di dover dare soldi ai vincitori e ai vinti. A noi cosa importa? Florita è straniera e io, che non possiedo più neanche un maravedì, non ho bisogno di sapere se ci si sgozza per Orbegoso, Bermudez o Gamarra”
Emmanuel è uscito e, poco tempo dopo, è arrivata mia zia Joaquina.

“Hai ragione – ha detto Carmen – in circostanze simili si è quasi contenti di non essere possidenti, perché è triste dare i propri soldi per la guerra civile quando li si potrebbe usare per alleviare la miseria della povera gente. Che vuoi, è il rovescio della medaglia!” Poco dopo, sono arrivati mio zio e Althaus. Erano entrambi preoccupati: mio zio, perché temeva di dover cedere loro la sua fortuna, mio cugino, perché era indeciso sul partito da scegliere. Tutti e due avevano molta fiducia in me e, in quella situazione imbarazzante, hanno chiesto il mio parere.
Avvicinandosi, mio zio mi ha detto in tono confidenziale: “Florita, sono molto preoccupato. Voi, che avete sempre una percezione giusta delle cose, datemi un consiglio. Siete la sola persona con cui possa parlare di questioni gravi. Questo Nieto è un miserabile senza il senso dell’onore, uno scialacquatore, un debole che si lascerà comandare dall’avvocato Baldivia, uomo capace, ma intrigante e rivoluzionario testardo. Questi briganti taglieggeranno tutti noi proprietari, Dio solo sa fino a che punto.
Mi è venuta un’idea: se domani mattina di buon’ora io andassi a offrire duemila piastre a quei ladri e a proporgli di fare un prelievo di soldi a tutti gli altri proprietari, non credete che questo darebbe l’impressione che io sono dalla loro parte e mi eviterebbe di essere tassato tanto pesantemente? Cara figliola, che cosa ne pensate?”

“Zio, trovo la vostra idea eccellente, penso solo che la somma che offrite non è abbastanza alta.”
“Ma Florita, mi credete ricco quanto il papa? Dite che non si accontenterebbero di diecimila franchi?”
“Caro zio, le loro esigenze saranno proporzionate alle ricchezze disponibili. Se voi, l’uomo più ricco della città, consegnaste solo diecimila franchi, le loro entrate complessive sarebbero magre. Invece io vi dico che la loro intenzione è di fare un colpo da maestro.”
“Come fate a dirlo? Avete sentito dire qualche cosa?”
“Non esattamente, ma dispongo di indizi.”

Quando egli è uscito, Althaus si è avvicinato a sua volta e mi ha detto: “Florita, non so che cosa fare. Per quale di questi tre presidenti mascalzoni di devo prendere partito?”
“Cugino, non avete scelta. Dal momento che qui è riconosciuto Orbegoso, dovete schierarvi sotto alle sue bandiere e prendere gli ordini da Nieto.”
“E’ proprio questo che mi fa arrabbiare. Nieto è un asino, presuntuoso come tutti gli sciocchi, destinato a finire sotto il pollice di quell’avvocatucolo di Baldivia, mentre dalla parte di Bermudez ci sono alcuni soldati di cui potrei mettermi al fianco.”
“Sì, ma Bermudez è a Cuzco e voi siete ad Arequipa. Se voi rifiutate di stare con i signori locali, essi vi destituiranno, vi ricatteranno e vi sottoporranno a ogni tipo di vessazione.”

“Ma dovete almeno credere a quello che fa. Il fatto che don Pio consideri questo governo lungo abbastanza da versare dei soldi nelle sue casse, dovrebbe convincervi. Domani, egli porterà quattromila piastre a Nieto.”
“Ha detto così?”
“Sì, caro amico.”
“Questo cambia le cose! Avete ragione, cugina. Quando un uomo politico come don Pio offre quattromila piastre a Nieto, un povero soldato come me deve accettare il posto di capo di stato maggiore che gli viene offerto. Domani mattina, prima delle otto, andrò dal generale. Che mestiere disgraziato! Pensare che io, Althaus, sarò costretto a ubbidire a un uomo che non avrei accettato neanche come caporale semplice quando ero tenente dell’esercito del Reno!… Se riuscissi a farmi pagare da questa banda di ladri almeno la metà di quello che mi devono per il lavoro che ho fatto e che loro sono incapaci di apprezzare, giuro che abbandonerei questo paese maledetto per non farvi mai più ritorno!”

Dopo che Althaus se ne era andato, i miei pensieri si sono fatti più seri. Non potevo evitare di sentire pietà per le disgrazie dell’America latina, in nessuna regione della quale si è ancora insediato un governo stabile in grado di proteggere le persone e le proprietà e dove accorrono, ormai da vent’anni, gli uomini violenti di tutti i paesi, che vedono la propria azione bloccata in Europa dal progresso della ragione e che vengono in America a fomentare gli odi, prendendo partito nelle liti, cooperando a prolungare le resistenze e perpetuando la calamità della guerra. I Sudamericani spagnoli non si battono per dei principi, ma per dei capi che li ricompensano con il bottino proveniente dal saccheggio dei loro fratelli. In nessun altro paese la guerra si è mostrata sotto un aspetto così disgustoso e disprezzabile. Essa cesserà di devastare questi paesi disgraziati solo quando non ci sarà più nulla a tentare la loro cupidigia e questo momento non è lontano.
Verrà il giorno, fissato dalla Provvidenza, in cui questi popoli saranno uniti sotto il vessillo del lavoro. Quel giorno, ricordando le calamità passate, possano essi esecrare gli uomini di sangue e di rapina e considerare marchi d’infamia la croce, le stelle e le decorazioni di ogni genere, di cui li fregiano i padroni. Possano essi cacciare quegli uomini da ogni luogo e accogliere la scienza e il talento messi al servizio della felicità degli uomini.
La mattina dopo, mio zio è entrato nella mia stanza di buon’ora, mentre ero ancora assopita.
“Cara Florita - mi ha detto – vi chiedo scusa per venirvi a disturbare così presto. Come state? Avete riposato bene?”
“No, zio, ho un’agitazione febbrile che mi impedisce di prendere sonno. Il mio mal di testa non mi abbandona mai e mi sento molto debole.”
“Non mi stupisco affatto, voi non mangiate nulla. Credete che sia con delle arance, del caffè e un po’ di latte che vi rimetterete dalle dure fatiche del vostro lungo viaggio?
Né Joaquina né io osiamo contrariarvi, ma soffriamo del modo in cui trattate voi stessa. Carmen ha ragione a chiamarvi fiore dell’aria, in effetti voi somigliate molto a questa pianta che vive solo d’aria.

“Zio, io ho vissuto tutta la vita nello stesso modo e sono sempre stata bene. Credo che la mia malattia sia dovuta all’aria del vulcano. E voi, zio, sembrate preoccupato e sofferente. Siete anche voi ammalato?”
“No, figlia mia, ma neanch’io ho dormito, a causa dei recenti avvenimenti, che mi hanno sconvolto. Ho riflettuto su quello che mi avete detto e temo che duemila piastre non siano abbastanza, ma quattromila sono una somma enorme!”

“Ah! Anche loro fanno uso di paroloni! Lo chiamano prestito… furfanti svergognati! Anche Bolivar chiamava prestiti le sue esazioni. Chi si è mai sognato di restituirmi le venticinquemila piastre che l’illustre libertador mi ha preso quando è venuto qui? Anche il generale Sucre prendeva i nostri soldi a titolo di prestito, ma non ho mai rivisto le diecimila piastre che si era fatto dare. Ah, Florita, simili impudenze mi fanno uscire di senno! Venire a mano armata a derubare la gente in casa propria e aggiungere il danno alla beffa facendo registrare come prestiti le somme rubate, è il massimo della sfrontatezza…”
“Zio, che ore sono?”
“Le otto.”
“Ebbene, vi consiglio di andare, perché so che alle dieci sarà resa pubblica l’ordinanza della città che impone ai proprietari di versare i soldi.”
“Davvero? Allora non ho tempo da perdere, mi decido per quattromila piastre.”
In questo modo - pensavo – per un provvidenziale equilibrio il denaro rifiutato a me per iniquità veniva sottratto con la violenza. Se credessi nella vendetta divina, ne vedrei qui un esempio. Don Pio veniva colpito in quello che aveva di più caro, come se Dio avesse voluto che la sua ingiustizia fosse a sua volta vittima di un’altra ingiustizia.
Lo zio è tornato tutto contento.

Althaus mi è venuto vicino ridendo come un pazzo. “Come siete fortunata a non avere soldi, cugina! Oggi i possidenti hanno un aspetto da far pietà e mi dispiacerebbe vedere anche voi, che siete così graziosa, con il volto corrugato. Sono stato nominato capo di stato maggiore del generalissimo Nieto, cosa che mi rende ottocento piastre di stipendio. Il caro dottor Baldivia aveva segnato sul bando il nome di Manuela Florez d’Althaus accanto alla modica somma di ottocento piastre da versare come contributo; ma, poiché in questi tempi fortunati tutto si fa in nome del potere militare, il suddetto bando è arrivato sul mio tavolo e, prima di firmarlo, ho avuto la buona idea di leggere i nomi delle vittime taglieggiate. Giunto a quello della mia illustre sposa, l’ho cancellato senza tante cerimonie, poi sono andato dal generale e, gridando a squarciagola, gli ho detto che trovavo sorprendente che sul bando ci fosse il nome di mia moglie tassata per ottocento piastre mentre né la sua né quelle degli altri membri del governo supremo figuravano per un solo reale.
Alla replica di messer Baldivia che “la nipote di don Pio…”, l’ho interrotto con veemenza, dicendo che non si doveva vedere la nipote di don Pio, ma solo la moglie del capo di stato maggiore Althaus.
Se i lupi cominciavano a mangiarsi tra loro, allora al diavolo! avrei gettato via la mia pelle e sarei andato a ululare in un’altra tana.” Pronunciando queste parole, ho battuto a terra la sciabola e ho fatto riecheggiare gli speroni con tale forza che il monaco ha preso la penna per cancellare il nome di mia moglie. Trovandolo già soppresso, ha contratto le labbra, è impallidito, cercando di capire con lo sguardo dove attingessi la mia sicurezza. Come a Waterloo, io ero immobile come una roccia e, guardandolo in faccia, gli ho detto: “Amico, in questo affare ognuno di noi ha il suo incarico: voi avete quello di preparare i bandi che estorceranno soldi ai borghesi, io ho quello di farli eseguire. Penso che in questa circostanza la mia sciabola sarà utile quanto la vostra penna.” L’amico ha capito e vi assicuro, Florita, che la mia uscita ‘soldatesca’, come la chiamereste voi, ha sortito il suo effetto.”

Verso mezzogiorno, è arrivata mia cugina Carmen con un’espressione gioiosa:
“Florita, sono venuta a prendervi. Alzatevi, cara, bisogna assolutamente che veniate a sedervi alla finestra del salotto per godervi con me lo spettacolo offerto da via Santo Domingo. Sono avvenimenti di cui potrete parlare nel vostro diario. Ho già annotato per voi i due più divertenti. Avvolgetevi nel vostro mantello e copritevi la testa con il grande velo nero, io metterò dei tappeti e dei cuscini sul davanzale della finestra, starete come sul vostro letto e ci divertiremo come delle regine.”
“Ma cosa accade dunque, cugina, in via Santo Domingo?”

Trascinata dalla sua insistenza, mi sono accomodata alla finestra. Carmen aveva ragione, le cose da vedere offrivano lo spunto per interessanti osservazioni.
Mia cugina era pervasa da quella cupa malignità, comune agli esseri che non osano mettersi apertamente in contrasto con la società, di cui sono state vittime e che colgono tutte le occasioni per vendicarsene. Così si rivolgeva a tutti quelli che passavano davanti a noi, divertendosi a girare il coltello nella piaga.
“Come siete carico, senor Gamio! Dove portate questi grossi sacchi di piastre? Ce ne sono abbastanza per comprare una piccola chacra a ognuna delle vostre figlie!”
“Non sapete dunque, dona Carmen, che hanno avuto l’iniquità di impormi il pagamento di seimila piastre!”
“Davvero, senor Gamio! Ma è spaventoso! Un padre di famiglia come voi, un uomo così perbene ed economo, che si priva del necessario per avere le borse piene di quattrini: è un’ingiustizia terribile!”
“Voi sapete di cosa mi sono privato per accumulare! Ebbene, ecco il frutto delle mie economie che sparisce d’un sol colpo! Mi tolgono tutto!”
“Don José, se almeno questi soldi vi dispensassero dal versarne degli altri…”
“Pensate che me ne prenderanno ancora?”
“Don José, viviamo in tempi in cui le persone oneste non hanno la libertà di parlare. Bisogna raccomandare l’anima alla santa Vergine e pregare per gli sfortunati che hanno i soldi…”
Il senor Gamio, tremante di paura e con le lacrime agli occhi, si è allontanato dalla finestra di Carmen con la disperazione nel cuore.

“Perché, senor don Ugarte, vi sfiancate a portare dei sacchi così pesanti? Non avete un negro o un asino che possa sollevarvi da questa fatica?”
“Ma che cosa dite, dona Carmen, affidare a un negro dei sacchi pieni di soldi! Datemi una mano ad appoggiarli sulla vostra finestra. Dentro, ci sono diecimila piastre e quasi tutte d’oro!”
“Oh, senor, capisco che sia difficile rinunciare a queste belle once, che riposavano tranquille in fondo a qualche cantina, per darle a delle persone che le faranno circolare.”
“Darle? Dite piuttosto che me le rubano, perché, com’è vero che la Vergine è in cielo con il suo santissimo Figlio, se non fosse che mi hanno minacciato di mettermi in prigione e che, durante la mia prigionia, mia moglie potrebbe rubarmi tutti i soldi, mi sarei dato fuoco piuttosto che pagare un solo maravedì. I miei poveri soldi! Sono la mia sola consolazione e loro me li prendono!”


“Prendete, senor don Ugarte, ecco un bel sigaro Avana di contrabbando. Costa due soldi.”
“Grazie, senora, mi fate proprio un bel regalo. È per me una vera gioia fumare un buon sigaro, ma vi renderete conto che non posso pagare questo prezzo.”
“Senor, con un quarto di uno di questi sacchi si potrebbero comprare dei sigari Avana grandi come le torri di Santo Domingo, ma dopo questa spoliazione, eccovi privato di buoni sigari per il resto della vita."
“La cosa più terribile, dona Carmen, è vedere l’ingiustizia con cui mi trattano. Imporre diecimila piastre a un pover’uomo come me, che non ha neanche un vestito da mettersi! I nemici dicono che sono ricco. Ricco io, santa Vergine! Per quelle due o tre proprietà che mi costano più di quello che rendono! Lo sanno tutti che negli ultimi sei anni non ho ricevuto neanche una piastra dai miei fattori. Il poco denaro contante che avevo l’ho prestato a delle persone che non me lo restituiscono. Sono ridotto al punto che spesso mia moglie non ha i soldi per andare a fare la spesa.”
“Eppure, senor, da stamattina alle dieci – e adesso è solo mezzogiorno – in qualche cantuccio voi avete trovato tutti questi sacchi pieni d’oro…”

“Chi l’ha detto?”
“Sapete che si è al corrente di tutto in questo paese, si arriva perfino a dire che in cantina voi avete una botte piena d’oro.”
“Santa Vergine, che cattiveria! Che calunnia! I miei nemici dicono che ho un barile pieno d’oro? Non c’è proprio più rispetto! Ma voi, dona Carmen, non lo credete, vero? Sono delle infami menzogne! San Giuseppe, mi faranno uscire di senno!”
L’insensato si è ricaricato i sacchi sulle spalle e la sua faccia ha assunto ancora di più l’espressione di cupa follia, i suoi muscoli si sono contratti, il corpo tremava tutto e si vedeva che soffriva terribilmente. Chino sotto il peso del suo oro, questo mendicante si è allontanato con la fretta che gli permetteva il suo fardello.
“Carmen, siete molto cattiva.”
“Perdere un uomo simile, che basta da solo a disonorare la città in cui è nato, non sarebbe un gran danno per il paese! Non è odioso vedere un milionario come lui, che ha accumulato ricchezze per tutta la vita senza mai goderne, che ha privato del lavoro i più sfortunati, coperto di miseri stracci? In città vi sono cinque o sei individui enormemente ricchi, che fanno a gara a chi è più spilorcio. Sono sanguisughe che risucchiano senza sosta l’oro e l’argento della società, senza mai restituirle niente.”


Avevamo appena finito di fare queste riflessioni provocate dall’avarizia di Ugarte quando si avvicinò don Juan de Goyeneche. Era distrutto e temevo di vederlo cadere da un momento all’altro. Carmen lo invitò ad entrare.
“Sto andando a cercare don Pio e spero che potrà prestarmi dei soldi, altrimenti Dio solo sa cosa succederà alla nostra famiglia. Sapete che questa gente… dona Carmen, non c’è pericolo che qualcuno ci senta? Andate alla finestra a vedere se nessuno ci ascolta… sapete che hanno avuto l’impudenza di imporre al nostro venerabile fratello, il vescovo, ventimila piastre di imposte!
Mia sorella è stata tassata per cinquemila, io per seimila. La nostra ricchezza è stata decurtata di trentunomila piastre in un colpo solo. Florita, non so che cosa darei per essere al posto di nostro fratello Mariano. Lui vive tranquillo a Bordeaux e si gode le sue ricchezze. Mi sono pentito da tempo di aver acquistato i beni che possedeva qui e, da quando c’è questa rivoluzione, deploro più che mai la stoltezza di essermi legato a questo paese.”

“Don Juan – ha detto mia cugina – appena questa bufera si calmerà voi tornerete a essere re. Vostro padre è primo per la sua dignità, voi lo siete per le vostre ricchezze. In Francia, dove le grandi proprietà sono talmente numerose da non permettere di distinguerle, avreste la stessa posizione eminente?”
“Ah, dona Carmen, il vantaggio di essere qualcuno in un paese di rivoluzioni si paga troppo caro perché non si preferisca l’oscurità al privilegio di una simile distinzione.
Pensate a quello che ci costa l’ascesa al potere di ogni nuovo governo: il libertador Bolivar ha sottratto alla nostra famiglia quarantamila piastre, il generale Sucre trentamila, San Martin tutto quello che mio padre possedeva a Lima. Adesso, Nieto e Baldivia si sono impegnati a incasellarci di nuovo per depredarci.”

“Caro cugino, ci vuole un po’ di filosofia. Dalla ruota della fortuna escono sia i biglietti vincenti che i perdenti e non si possono sempre pescare i primi. Quando vostro padre è venuto in questo paese non aveva nulla ed ha accumulato enormi ricchezze. Si dice che vostro fratello, don Emmanuel, oggi conte di Guaqui, possieda una ventina di milioni, tutti provenienti dal Perù. Credete veramente, don Juan, che se vostro padre fosse rimasto in Biscaglia, i vostri fratelli sarebbero uno vescovo e l’altro grande di Spagna?”
Ho interrotto la perfida Carmen, che si divertiva a torturare quest’altro Ugarte.
“Cugino - gli ho detto - questi soldi vi saranno resi, lo zio Pio ne è convinto, tanto che sarebbe disposto a prestare a questo governo tutto quello che vuole.”
Vedendo che non poteva aspettarsi alcuna consolazione da Carmen, che lo detestava, si è alzato per andarsene. Era evidente che Carmen provava una gioia segreta a vendicarsi di quei taccagni che avevano criticato il suo modo di vivere, pur accettando i suoi sigari da due soldi, le sue cene e le sue feste.
Carmen insisteva per farmi tornare alla finestra, ma io resistevo alla sua ostinazione perché lo spettacolo dell’avarizia alle prese con l’oppressione mi ripugnava, in quanto mi mostrava l’umanità sotto un aspetto troppo spregevole.”

“Florita, venite almeno a vedere in vecchio Hurtado, che ha caricato stoicamente le sue seimila piastre su di un asino. È un vero filosofo… Vediamo che cosa ci racconta.”
Mi sono lasciata vincere dalla curiosità di sapere che cosa pensasse il vecchio filosofo nello sborsare le sue piastre.
“Bravo, nonno Hurtado! Almeno voi non vi affaticate a portare i sacchi sulle spalle!”
“Carmen, il filosofo deve piegarsi solo sotto il peso della saggezza. Il mio asino è nato per portare dei carichi e non vedo perché l’oro e l’argento debbano fare eccezione ed essere trasportati dall’uomo, mentre il ferro, il rame, il piombo, che sono metalli molto più utili, debbano essere portati dalle bestie da soma.”
“Caro vicino, vedo che voi, che possedete una tomba, accondiscendete di buon grado a pagare, mentre quelli come don Pio, Juan de Goyeneche, Ugarte e Gamio, più sfortunati, non si rassegnano altrettanto facilmente.”
“È vero, Carmen, io possiedo una tomba, ed è la mia saggezza, che è più inesauribile della più ricca tomba incaica.”
“La saggezza è una cosa preziosa, ne convengo, ma, per quanto mi riguarda, potrei essere assennata quanto uno dei saggi greci e latini di cui non conosco i nomi, senza che questo aggiunga un’oncia in più nelle mie tasche.”
“Se questo è quello che credete, figliola, siete in errore.”
“Nonno Hurtado, voi mi fate nuovamente andare in collera, come accade ogni volta che parlo con voi.
Non vorrete spingervi a dire che è stata la vostra saggezza a consentirvi di comprare le sette o otto case che possedete in città, i vostri bei terreni, il grande zuccherificio, che è con la vostra saggezza che avete allevato i figli, li avete fatti istruire, avete dato una dote alle figlie, che è con la saggezza che mantenete nel lusso vostra figlia suora a Santa Catalina, fate offerte ai conventi, costruite la chiesa del villaggio dove possedete la terra… Lasciateci in pace con la vostra saggezza, a queste condizioni sarebbero tutti saggi, per Cristo!”

“Lo sarebbero se tutti avessero avuto in dono la disposizione alla saggezza, ma vedo con chiarezza che non è così, non trovo alcun saggio e vedo solo degli stolti… Addio, vicina… Cara Florita, vedo che state meglio, venite a trovarmi. Ho molte cose da farvi vedere nel mio studio. Voi avete tutto ciò che occorre per raggiungere la saggezza, ecco perché mi piace tanto parlare con voi.” E si è allontanato.

Per la figlia suora compra gli oggetti più cari portati dalle navi europee e, da vecchio ipocrita, ha l’impudenza di venirmi a predicare la saggezza! A me che da vent’anni sopporto con filosofia ogni sorta di privazioni e non ho neanche i soldi per comprarmi un paio di calze di seta. Florita, queste cose mi rivoltano! Mi dispiace che non abbiate preso la parola per dimostrargli che non siete la sua vittima ingenua. Quando si possiedono i tesori di una tomba e si va a fare mostra di saggezza davanti a chi non ha soldi, si è male accetti.”
Ad Arequipa sono tutti convinti che il vecchio Hurtado abbia trovato una tomba che alimenta le sue enormi spese.
Io invece credo che, come il vecchio di La Fontaine, egli abbia scoperto il suo tesoro nel lavoro o, come dice lui, nella saggezza. Infatti, il lavoro intelligente è la migliore saggezza dell’uomo. Questo vegliardo venerabile è economo senza essere avaro, è molto laborioso e possiede delle conoscenze pratiche molto vaste e superiori a quelle degli altri abitanti del paese. Ha lavorato tutta la vita e ha portato a buon fine tutte le sue imprese. Mi sembra che l’origine della sua ricchezza si possa spiegare in questo modo, senza bisogno di ricorrere alla scoperta miracolosa di una tomba. Inoltre, si dovrebbe essere contenti che il destino lo abbia favorito, perché fa un uso nobile delle sue ricchezze. Ma spesso si è gelosi degli uomini di intelligenza superiore e quando non li si può calunniare, si preferisce attribuire i loro successi a un miracolo.

Dopo gli ultimi avvenimenti, la città aveva completamente cambiato aspetto: da calma, monotona e mortalmente noiosa com’era prima della rivoluzione, era ora straordinariamente convulsa e tremendamente chiassosa. Il governo di Orbegoso era costretto a usare i soldi ricevuti dai proprietari per mettere in piedi un esercito abbastanza forte da resistere a quello di Bermudez. Ero al corrente di quello che succedeva al quartier generale perché, con la sua franchezza e il bisogno di ridicolizzare i capi, Althaus mi informava degli avvenimenti fin nei più piccoli dettagli. La presunzione, l’incapacità, l’incuria di quegli uomini erano superiori a ogni immaginazione.

Un mese dopo l’uscita del bando, un giorno Althaus è entrato nella mia stanza ridendo e non riuscendo quasi a parlare:
“Che cosa provoca la vostra ilarità, cugino? Un altro sproposito del generale, immagino. Raccontatemelo subito, così anch’io posso ridere con voi.”
“Questa mattina il nostro amabile e previdente generale mi ha mandato a dire di mettere ordine in quello che lui chiama il suo grande magazzino, vale a dire la cappella della prigione. Allora ho preso due uomini e sono andato in quel santuario dove, fino a quel momento, mi era stato proibito di entrare. E non era senza motivo che me lo avevano tenuto segreto. Indovinate che cosa vi ho trovato.”
“Non so. Delle sciabole, dei fucili?”
“Sì, delle sciabole e non immaginate quante.
Duemilaottocento, appena acquistate, ma sfido Nieto a trovare più di settecento o ottocento uomini ai suoi ordini! Vi sono anche milleottocento fucili e che fucili! Non c’è pericolo che uccidano i propri fratelli con quei fucili fabbricati a Birmingham. Costano solo ventidue franchi e sono della buona merce inglese levigata e a buon mercato, ma un semplice palo sarebbe più pericoloso di dieci di essi: le sciabole, poi, sono degli strumenti ideali per tagliare le rape. Per non parlare delle pile di tessuto blu, il colore dei granatieri francesi e delle migliaia di cinturoni e di budrieri che ho visto in un angolo senza che abbia scorto una sola giberna. Che il diavolo mi porti, ma si direbbe che dei piccioni viaggiatori abbiano portato la notizia della rivoluzione di Lima a quei buffoni di capitani inglesi e francesi, che hanno appestato il Perù con questi avanzi di magazzino. E pensate che le armi siano state sistemate in modo da garantirne la conservazione e i fucili disposti in modo da impedirne l’arrugginimento? Proprio per niente. Nella vecchia cappella entra acqua da tutte le parti e gli oggetti sono ammassati alla rinfusa, gettati come fasci di fieno. Ma non ha importanza perché, bagnati o no, i cani di quei fucili non abbaieranno mai.
Allora, bravi borghesi di Arequipa, dovete essere contenti se vi hanno preso i soldi perché avete almeno la soddisfazione di vederli spesi bene. Ecco un grande magazzino dove ci sono più sciabole che soldati per usarle, ci sono mucchi di tessuto blu senza i sarti per farne abiti e grandi quantità di budrieri. Quanto alle giberne, il capitano le ha vendute a Santa Cruz. È meraviglioso! Quando descriverete in Francia queste bambocciate peruviane, crederanno che abbiate calcato la mano: duemilaottocento sciabole per seicento soldati che non hanno né scarpe né shackos per ripararsi la test e che mancano di tutto!”


Althaus ha continuato per più di due ore a canzonare quel che facevano e dicevano gli illustri capi della repubblica, con grande inventiva e allegria e non potevo fare a meno di ridere con lui.
“Althaus, voi dovreste dare dei consigli a queste persone, vedete bene che non hanno idea di cosa fare nella grave situazione in cui li ha posti la loro ignorante tracotanza.”
“Dare dei consigli? Florita, si vede che non conoscete ancora la mentalità degli abitanti di questo paese. Sono degli sciocchi presuntuosi che credono di avere la scienza infusa. Nei primi anni della mia permanenza in America mi dispiaceva, come dispiace a voi, vederli commettere tanti errori e facevo rilevare con franchezza che se avessero fatto diversamente, le cose sarebbero andate meglio. Sapete che cosa è successo? Questi imbecilli sono diventati miei nemici implacabili, diffidavano di me e mi nascondevano le cose, come hanno fatto con le armi. Se non avessero avuto un bisogno urgente delle mie conoscenze, mi avrebbero cacciato via con ignominia. Dapprima ho sofferto parecchio per questo atteggiamento, poi ho preso la decisione di non preoccuparmi e di lasciar commettere loro ogni balordaggine, accontentandomi di dileggiarli, dopo che in Francia avevo appreso il potere del sarcasmo se usato in modo appropriato e con abilità.”
“Andrà proprio così. L’audace monaco Baldivia sta già preparando un secondo bando e, questa volta, don Pio non sfuggirà. Ugarte e Gamio saranno spennati, ma sarà soprattutto il vescovo con la sua famiglia a essere colpito. Signori borghesi che avete voluto questo governo, stiamo per dimostrarvi quanto costa una repubblica!” Nell’animo del barone Althaus regnava l’assolutismo e i risultati che aveva sotto gli occhi non erano tali da indurlo a cambiare opinione politica, perciò egli continuava allegramente a farsi beffe di questo sistema amministrativo.
Le città dell’America spagnola, separate da immense distese di territorio incolto e disabitato, hanno ancora pochi interessi in comune. Sarebbe stato urgente dotarle sin adll’inizio di un’organizzazione municipale proporzionata allo sviluppo culturale degli abitanti, suscettibile di progredire con loro, per riunirle poi in una federazione che fosse l’espressione dei rapporti esistenti fra i vari centri abitati. Ma per affrancarsi dalla Spagna è stato necessario mettere in piedi degli eserciti e, come succede sempre, la forza della spada alla fine ha prevalso. Se le popolazioni vivessero più vicine, sarebbero più unite nelle aspirazioni e non ci sarebbe lo spettacolo dei continui conflitti che continuano a rinascere da più di vent’anni.

Vedendo i prodigi che la libertà ha generato nell’America del Nord, ci si stupisce di vedere quella del Sud restare in preda ai tumulti politici, alle guerre civili e non si fa abbastanza attenzione alla diversità del clima e alle differenze morali tra i due popoli. Nell’America del Sud, i bisogni sono più limitati e facili da soddisfare, le ricchezze sono ancora distribuite in modo ineguale e l’accattonaggio, compagno inseparabile del cattolicesimo spagnolo, è quasi un mestiere. Prima dell’indipendenza, in Perù c’erano immense ricchezze, realizzate nel pubblico impiego, nel commercio, in particolare in quello illecito e nello sfruttamento delle miniere. Solo un piccolo numero di queste fortune aveva origine dalla coltivazione della terra. La massa della popolazione era coperta di stracci e da allora il suo destino non è migliorato. Nell’America inglese, invece, gli usi e costumi si sono formati in un clima liberale sia in politica che in religione, le popolazioni abitavano vicine e, vivendo in un clima difficile, avevano conservato le abitudini di lavoro dell’Europa. Inoltre la ricchezza, acquisita attraverso la coltivazione della terra e il commercio regolare, era distribuita in modo abbastanza equo.

Quando ad Arequipa è giunta la notizia degli avvenimenti di Lima, gli uomini che hanno fatto schierare la città dalla parte di Obergoso non erano mossi dall’amore per il bene pubblico né da un’opinione migliore di questo presidente rispetto agli avversari. Essi hanno visto un’occasione per impadronirsi del potere e arrivare alla ricchezza e si sono affrettati ad approfittarne. Baldivia, che esercitava una grande influenza sul generale Nieto, lo ha spinto a impadronirsi del comando militare di tutto il dipartimento. Lui stesso, sotto gli auspici del generale, si è messo alla testa del governo civile e ha distribuito tutti gli impieghi ai suoi fautori. Sono stati questi due uomini o, meglio, Baldivia da solo, a condurre tutti gli affari per tre mesi, fino a quando è arrivato San-Roman.


Ho deciso di entrare anch’io nella vita pubblica. Dopo essere stata vittima della società e dei suoi pregiudizi, voglio cercare di sfruttarla a mia volta, vivere una vita come quella degli altri, diventare avida, ambiziosa e impietosa come loro, fare di me stessa il centro delle mie azioni e non essere fermata da alcuno scrupolo. E dato che mi trovavo in una società in rivolta, dovevo vedere con quale mezzo avrei potuto giocare un ruolo e di quali strumenti avrei potuto servirmi.

Pensavo che dipendesse dalla nostra volontà il forgiarci per ogni tipo di ruolo, ma fino ad allora avevo sentito solo gli appelli del cuore. L’ambizione, la cupidigia e le altre passioni fittizie apparivano al mio spirito come i fermenti di cervelli malati.
Quando la misura è stata colma, mi sono messa in aperta rivolta contro un ordine di cose che sanzionava la schiavitù del sesso debole e la spoliazione degli orfani, di cui ero anch’io vittima. Mi sono ripromessa di entrare negli intrighi dell’ambizione, di rivaleggiare con il monaco in audacia e astuzia e di essere, come lui, perseverante e senza pietà.

Non avevo tuttavia rinunciato al mio disegno di entrare nel movimento politico e di giocarvi un ruolo importante. A darmi coraggio avevo sotto agli occhi l’esempio della senora Gamarra, che era diventata l’arbitro della repubblica e dirigeva tutti gli affari, comandando anche l’esercito. Dietro alle figure e ai nomi di Bermudez e Orbegoso, ella portava avanti la sua battaglia contro il monaco Baldivia.

Quando non sapevo come fare per sfuggire al tormento che mi agitava e ai fastidi delle conversazioni politiche, andavo a cercare mia cugina Carmen e la pregavo di venire con me a fare un giro fuori città. Carmen era di una gentilezza inesauribile nei miei confronti - di questo le sarò sempre riconoscente – e cedeva a tutte le mie richieste, anche se per lei era un compito ingrato.
Ad Arequipa non vi sono strade per passeggiare e le donne non hanno l’abitudine di uscire.
L’attenzione che hanno per i propri piedi contribuisce a renderle sedentarie, perché, camminando, esse temono di farli ingrossare. Le nostre passeggiate preferite erano al mulino sul fiume, nel quale qualche volta entravamo. Mi piaceva esaminare quell’edificio rustico che, nel suo insieme, non è al livello dei nostri, altre volte entravamo a vedere la macina del cioccolato, situata accanto a quella della farina. Vi ritrovavo con piacere i progressi della civiltà: vi si macinava il cacao, si sminuzzava lo zucchero, poi si mescolavano entrambi per fare la cioccolata. Il proprietario mi dimostrava molta considerazione per l’interesse che manifestavo con le mie domande sul macchinario e per l’attenzione che prestavo alle sue spiegazioni. Uscivo sempre di là con una piccola provvista di ottimo cacao e con un magnifico bouquet che dovevo alla sua galanteria.

Quando il livello del fiume era basso, lo attraversavamo saltando da una pietra all’altra o ci facevamo portare a spalle dalle negre. Poi ci arrampicavamo sulla collina, che domina la valle di Arequipa, ai piedi della quale scorre il fiume. Arrivate in cima, ci sedevamo con le gambe incrociate, secondo l’uso del paese. Provavo un piacere incredibile a restare così per ore intere, immersa in dolci fantasie o chiacchierando con Carmen , mentre lei fumava il suo sigaro.
Nel corso delle nostre conversazioni, Carmen mi parlava delle disgrazie del suo paese e la mia amarezza raddoppiava.
Per me era evidente che se una persona di animo forte e generoso fosse riuscita a impadronirsi del potere, le disgrazie avrebbero avuto un termine e questa contrada sfortunata avrebbe avuto un avvenire di prosperità. Pensavo a tutto il bene che avrei potuto fare se fossi stata al posto della senora Gamarra ed ero più che mai decisa a cercare di conquistarlo.

Fra i militari che venivano a casa dello zio e di Althaus ne avevo incontrato uno solo che avrebbe potuto rispondere alle mie aspettative. Era quello che mi causava più ripugnanza, ma ero talmente pervasa dall’importanza del ruolo che avrei dovuto ricoprire che non avrei esitato a ispirargli un sentimento d’amore. Evidentemente, però, Dio mi riservava un’altra missione perché quell’ufficiale era già sposato. Quando mi sono convinta che ad Arequipa non c’era un uomo che avrebbe potuto servire ai miei scopi, sono stata costretta ad abbandonare il mio progetto. Tuttavia, mi restava ancora una speranza, alla quale mi sono aggrappata: andare a Lima.
Ho annunciato allo zio e a tutta la famiglia che volevo partire per la Francia e che mi sarei imbarcata a Lima, perché desideravo conoscere la capitale del Perù.
La notizia ha sorpreso tutti e lo zio mi è apparso molto colpito. Ha insistito per distogliermi dal mio proposito, ma non mi ha offerto in alternativa una posizione più indipendente di quella di cui godevo. Althaus era molto addolorato, sua moglie era disperata, ma le due persone della famiglia che hanno provato più dispiacere per la mia partenza sono stati Emmanuel e Carmen.
Con tristezza sincera, Carmen mi ripeteva: “Nessuno soffrirà più di me della vostra assenza. Don Pio è assorbito dagli affari politici, Althaus, anche se vi ama molto, è distratto dalle sue varie occupazioni, Manuela lo è dai rapporti sociali e dai vestiti, Emmanuel è assorbito dai piaceri della sua età. Ma a me, che vivo ritirata e sconosciuta persino alla mia famiglia, chi ridarà le consolazioni della vostra dolce ed elevata filosofia? Chi potrà regalarmi quei momenti di allegria dovuti alla vostra indole fuori del comune, il cui incanto ravvivava la mia triste esistenza? Ah, Florita, non passerà giorno senza che io sospiri pensando a voi con rimpianto.”

Provavo pena a lasciare mia cugina Carmen. Gli altri non avevano bisogno di me, ma per lei ero diventata una compagna indispensabile.
Lo zio mi ha pregata di aspettare a partire, per vedere che piega avrebbero preso gli avvenimenti politici e io ho acconsentito.
A forza di soldi e di fanfaronate sul suo giornale, il monaco era riuscito a organizzare i seguenti corpi:
Fanteria 1000 uomini

Cavalleria 800 uomini
Battaglione di Immortali formato
dal fiore della gioventù di Arequipa 78 uomini
Chacareros (uomini dei campi)
della periferia 300 uomini
Totale dell’esercito 2.178 uomini
C’era anche una guardia nazionale formata da trecento o quattrocento veterani e destinata alla difesa della città.
Per darsi l’aria di un guerriero, il generale Nieto aveva creato un campo. Facendo uscire i soldati dalle caserme egli pensava di abituarli alla fatica. Il campo, situato a una lega da Arequipa, vicino a un villaggio, si trovava in un luogo non indicato dal punto di vista militare, perché aveva il grave inconveniente di essere circondato da chicherias.
Althaus aveva cercato di dissuadere Nieto dall’insediare il campo in quel posto e gli aveva fatto osservare i pericoli per la salute dei soldati nella stagione delle piogge e le spese enormi che ne sarebbero risultate. Ma il presuntuoso generale aveva disdegnato le considerazioni e i saggi consigli del suo capo di stato maggiore. Con quest’immagine guerresca Nieto ambiva a far colpo e voleva sembrare un grande capitano. Cedeva anche alla sciocca vanità di far mostra del suo potere in mezzo alle tende e nella cerchia di ufficiali. Il generale amava farsi vedere con un brillante stato maggiore al seguito, con il quale andava e veniva dalla città al campo e dal campo alla città. Noi trovavamo divertente la commedia giornaliera di quell’eroica cavalcata. Il generale montava un bel cavallo nero e, con le sue uniformi ricercate e sfarzose, si dava arie da Murat. Baldivia era spesso vestito da monaco e, sul suo cavallo bianco, impersonava un Lafayette peruviano. Gli ufficiali, coperti d’oro e carichi di pennacchi, erano altrettanto ridicoli.

Grazie ad Althaus e alla gentilezza del generale, disponevo di un cavallo per andare a vedere l’accampamento. I borghesi erano stati costretti a consegnare i cavalli o a nasconderli per sottrarli alla requisizione, solo mio zio aveva tenuto la sua giumenta cilena, perché era così focosa che in mezzo a un corpo di cavalleria avrebbe potuto creare incidenti e nessun ufficiale si sognava di montarla. La visita al campo era la mia passeggiata preferita e ci andavo alternativamente con mio zio, con Althaus o con Emmanuel, che era diventato ufficiale. Il generale mi accoglieva sempre molto bene, il monaco invece sembrava indovinare il disprezzo che mi ispirava. Appena mi vedeva, la sua fisionomia, falsa, odiosa e sfrontata, prendeva un’espressione molto particolare e mi sembrava evidente che indovinasse l’antipatia che provavo per lui. Mi salutava con fredda gentilezza, ascoltava con attenzione tutto quello che dicevo senza aver l’aria di essere interessato e senza intervenire mai nella conversazione.
Io sapevo da Emmanuel che le mie visite al campo non erano gradite e che le mie risate con Althaus dispiacevano molto a quei signori. Ma come avrei potuto non ridere alla vista di quei ridicoli ufficiali? Per i milleottocento uomini che doveva accampare – i chacareros e gli Immortali non facevano parte del campo – Nieto aveva utilizzato un terreno più grande di quello che avrebbe usato un generale europeo per accamparne cinquantamila. Su di un monticello era stata costruita una ridotta dotata di cinque piccoli cannoni da montagna. Era la prima volta che li vedevo e mi sembravano tubi di grondaia.

La fanteria, accampata in diverse file vicino alla ridotta, aveva un’aria misera. Gli sfortunati soldati dormivano sotto a piccole tende malferme, fatte di un tessuto sottile, che non li proteggeva dalle frequenti piogge. La cavalleria, comandata dal colonnello Carillo e collocata sull’altro lato della ridotta, occupava uno spazio molto più grande e il generale mi faceva sempre galoppare davanti alla lunga fila dei cavalli, molto distanziati fra di loro. Nel quartiere della fanteria, tutto era squallido.
Dietro le tende erano accampate le con tutto l’armamentario della cucina e con i bambini. Si vedeva della biancheria stesa ad asciugare, alcune donne erano occupate a lavare, altre a cucire, tutte facevano baccano con grida, canti e discussioni.

In Perù, i soldati portano con sé tutte le donne che vogliono – alcuni ne hanno anche quattro – e le ravanas sono le loro vivandiere. Esse formano una truppa considerevole, precedono l’esercito di molte ore per avere il tempo di procurarsi i viveri, di cucinarli e di preparare l’alloggio per i soldati. La partenza di questa avanguardia femminile dà l’idea della vita di pericoli e di fatiche che le povere donne devono sopportare. Esse caricano sui muli le marmitte, le tende e tutto il bagaglio e portano con sé una moltitudine di bambini di ogni età. Fanno partire i muli al gran trotto, li seguono correndo e superano alte montagne coperte di neve, traversano a nuoto i fiumi, portando sul dorso uno o due bambini.
Quando arrivano nel luogo stabilito, esse si preoccupano di scegliere il posto migliore per montare il campo, poi scaricano i muli, montano le tende, allattano i bambini, li mettono a dormire, accendono il fuoco e si mettono a cucinare. Se sono vicino a un luogo abitato, un loro gruppo va a fare provviste. Si lanciano sul villaggio come delle bestie affamate e domandano dei viveri per l’esercito. Se gli abitanti glieli danno, esse non fanno alcun male, ma se i residenti oppongono un rifiuto, si battono come delle leonesse, e grazie al loro feroce coraggio, hanno sempre la meglio.
Depredano, saccheggiano, poi portano il bottino al campo e lo dividono fra di loro.

Queste donne che provvedono ai bisogni dei soldati, che lavano e rammendano i loro vestiti, hanno come sola paga il permesso di rubare impunemente. Sono di razza e di lingua indiana e non conoscono una parola di spagnolo. Non sono sposate e non appartengono ad alcuno, sono di chi le vuole, vivono fuori dalla società, mangiano con i soldati, si fermano negli stessi posti, sono esposte agli stessi pericoli e sopportano fatiche più grandi. Quando l’esercito è in marcia, la sua sussistenza dipende quasi sempre dal coraggio di queste donne, che lo precedono di quattro o cinque ore. Se si pensa che, oltre alla fatica e ai pericoli che affrontano, esse hanno anche il peso della maternità, ci si chiede come fanno a resistere. È degno di nota il fatto che, mentre gli Indiani preferiscono uccidersi piuttosto che fare il soldato, queste donne scelgono volontariamente la vita che fanno, ne sopportano le fatiche, affrontano i pericoli con un coraggio di cui gli uomini della loro razza non sono capaci. Esiste forse una prova più evidente della superiorità della donna presso i popoli primitivi? E non sarebbe lo stesso nelle civiltà più avanzate se ai due sessi fosse data la stessa educazione? Speriamo che venga il giorno in cui questo esperimento sarà tentato.

Queste donne sono molto brutte e questo è comprensibile, data la natura delle fatiche che devono affrontare. Sono sottoposte agli estremi del clima e passano dal calore bruciante del sole della pampa al freddo delle gelide vette delle Cordigliere. Per questo hanno la pelle bruciata e screpolata, le palpebre rovesciate e iniettate di sangue. Solo i denti sono bianchissimi. Indossano una piccola gonna di lana che arriva a malapena al ginocchio e una pelle di montone con un buco al centro per far passare la testa, vanno a piedi scalzi, con le braccia e la testa scoperte. Fra di loro regna un discreto accordo, anche se a volte ci sono delle scenate di gelosia che si concludono con l’omicidio. Ma questi fatti non devono sorprendere, dato che le passioni di queste donne non sono trattenute da alcun freno. Non c’è dubbio che fra uomini che conducessero la stessa vita e non dovessero sottostare ad alcuna regola morale, gli assassinii sarebbero molto più frequenti. Le ravanas adorano il sole, ma non seguono alcuna pratica religiosa.
Il quartier generale, insediato nella casa di un certo signor Menao, era stato trasformato in casa da gioco. La grande sala in basso, divisa in due da una tenda, alloggiava da una parte il generale e gli ufficiali superiori, dall’altra i sottufficiali, ognuno dei quali giocava, a faraone, delle somme enormi.
Althaus, che voleva farmi vedere gli ufficiali della repubblica nel loro momento migliore, mi ha portata alle undici di sera a casa di Menao. Senza essere scorti, ci siamo messi a guardare dalla finestra. Che spettacolo offriva la compagnia!
Abbiamo visto Nieto, Carillo, Morant, Rivero e Ross seduti attorno a un tavolo, con le carte in mano e un mucchio d'oro davanti. La tavola era piena di bottiglie e di bicchieri colmi di vino e di liquori e la faccia dei presenti esprimeva la più violenta passione per il gioco, la rabbia e la cupidigia che nulla può saziare e che è anzi accresciuta dal cibo di cui si nutre! La luce livida che attraversava la coltre di fumo prodotta dai sigari che tutti avevano in bocca dava a quelle fisionomie qualcosa di infernale. Il monaco passeggiava su e giù a passi lenti e ogni tanto si fermava davanti a quegli uomini con le braccia incrociate e sembrava dire: “Che cosa posso aspettarmi da simili individui? Per l'espressione del volto, la lunga veste nera e il luogo in cui si trovava sembrava il genio del male, indignato per i vizi che costituivano un ostacolo al progresso della sua carriera criminale. I muscoli del viso erano orribilmente contratti, i piccoli occhi neri gettavano cupe fiammate, il labbro superiore esprimeva disprezzo e superbia, prima di riprendere, apparentemente rassegnato, la sua impassibilità. Siamo rimasti a lungo a contemplare quella scena e nessuno ci ha visti. Gli schiavi in servizio dormivano e i valorosi difensori della patria erano immersi nel gioco, mentre il monaco lo era nei suoi pensieri. Sulla via del ritorno, Althaus e io abbiamo parlato delle sfortune di un paese in balia di simili capi.

Negli ultimi giorni di marzo, è giunta la notizia da Lima che il presidente Orbegoso stava per venire ad Arequipa a prendere il comando dell’esercito. Essa ha fatto disperare Nieto, che diceva che il presidente veniva a togliergli la gloria dello scontro con San-Roman. Per prevenire quello che considerava un affronto, il presuntuoso generale, che non osava ribellarsi apertamente e che non aveva abbastanza influenza per proporsi come capo di partito indipendente, ha fatto ricorso a un mezzo che era alla sua portata.
In gran segreto, ha fatto scrivere una lettera confidenziale a non so chi, facendo in modo che finisse nelle mani di San-Roman. Nella lettera si diceva che l’esercito di Nieto era privo di mezzi, senza armi, senza munizioni e incapace di difendersi. Dopo l’invio della sua missiva, il generale sperava ogni giorno di veder arrivare l’esercito nemico e la sua impazienza era alle stelle.
Da tre mesi, l’attacco del famoso San-Roman ad Arequipa era oggetto di tutte le conversazioni. Nei primi due mesi, il nome di questo capo aveva prodotto sulla popolazione lo stesso effetto del nome di Croquemitaine sull’immaginazione dei bambini.
I partigiani di Orbegoso lo dipingevano come un uomo cattivo, feroce, capace di sgozzare con le sue mani, per il proprio piacere, i poveri Arequipegni e di mettere la loro città a ferro e fuoco per soddisfare la sete di vendetta del suo partito. Su di lui si dicevano mille altre amenità del genere.

Se fra la gente ci si divertiva a raccontare delle cose su San-Roman, con lo scopo di farsi paura a vicenda, e per la tendenza all’esagerazione e al meraviglioso che spinge questo popolo verso gli estremi, c’erano anche persone come il monaco, il generale, i loro subordinati e altri, fortemente interessate ad accreditare queste voci.
Le speranze dei due partiti erano riposte nell’esercito da cui si sentivano difesi. Entrambi si sarebbero giocati il tutto per tutto in un solo colpo. La vittoria assicurava al partito vincente un successo completo, la sconfitta una rovina irreparabile. Il partito di Orbegoso annientato su tutti i fronti, non aveva altro appoggio oltre al valore degli Arequipegni, sui quali erano appuntati tutti gli sguardi. La senora Gamarra, dal canto suo, sentiva che l’autorità del governo che aveva formato non avrebbe potuto sopravvivere fino a quando ci fosse stata una resistenza armata e che per essere padrona a Lima, occorreva che lo fosse prima ad Arequipa.
Se con i tre battaglioni che le restavano avesse sottomesso la città, Orbegoso non avrebbe più ostacolato il suo ritorno nella capitale. Si può capire quanto fosse importante, per i capi dell’esercito di Arequipa, per le autorità cittadine e per le persone che avevano interesse a sostenere Orbegoso, coltivare nel popolo idee esagerate delle sventure a cui le avrebbe condotte il trionfo di San-Roman…. per spingerle a difendersi fino all’ultimo. Così, ogni giorno si facevano circolare delle lettere non firmate scritte a mano dal monaco, nelle quali si diceva che San-Roman aveva promesso il sacco della città ai suoi uomini. La descrizione dei massacri, degli stupri, delle atrocità che questi scritti contenevano facevano sorgere nell’animo timido degli abitanti un terrore che andava fino alla disperazione. Il monaco raggiungeva così il suo scopo, perché la disperazione dà coraggio anche al più vile. Il generale arringava i soldati, il prefetto e il sindaco lanciavano i loro proclami con lo stesso spirito, i monaci dei diversi conventi, cedendo alla forza degli eventi, predicavano nelle chiese la resistenza fino alla morte.

Le arringhe e le prediche produssero sul popolo l’effetto che ci si attendeva.
Nel primo mese dopo l’insurrezione, il timore dell’arrivo di San-Roman, al comando dei tre battaglioni migliori, suscitò una preoccupazione penosa e indusse a organizzare la difesa con zelo. Il secondo mese, gli Arequipegni avevano acquistato fiducia nei loro preparativi e nel trionfo che il monaco prometteva al loro valore, si erano abituati all’idea della lotta nella quale stavano per impegnarsi, e hanno atteso il nemico a piè fermo. Ma il terzo mese la loro impazienza non conosceva più limiti! La lentezza di San-Roman nell’arrivare è sembrata loro una testimonianza della paura che gli ispiravano; il loro coraggio è aumentato e, come succede sempre ai popoli che non hanno esperienza, essi sono passati dal terrore alla iattanza e questa atteggiamento fanfarone ha dato alle persone ragionevoli delle giuste preoccupazioni. Esse temevano i rovesci e provavano inquietudini non meno crudeli verso le conseguenze della vittoria, ottenuta da uomini tanto vigliacchi e presuntuosi. Dal momento in cui, nella loro cieca fiducia, essi hanno creduto di aver vinto la battaglia, senza conoscere il nemico contro cui dovevano combattere, hanno fatto a gara a chi commetteva più sciocchezze, dal generale in capo fino all’ultimo impiegato del municipio.

Era uno spettacolo penoso! Mi sono resa conto in quel momento che, qualunque cosa fosse successa, il paese era perduto. La vittoria di Nieto, come quella di San-Roman avrebbero inevitabilmente portato alla necessità di nuove tasse, la spoliazione delle proprietà e a saccheggi di ogni tipo.
Il 21 marzo Althaus mi ha detto: “Florita, dopotutto sembra che il generale abbia delle informazioni precise: San-Roman sarà qui domani o dopodomani. Ci credereste che fino ad ora, malgrado l’enorme somma spesa per le spie, non siamo riusciti a sapere nulla di preciso su quello che succede nel campo nemico? Il generale non vuole che m’immischi. L’amor proprio di quello sciocco deve sentirsi ferito da un saggio consiglio, così mi nasconde tutto quello che può.”
Da due giorni le truppe erano rientrate in caserma, stremate dalle fatiche e dalle privazioni sopportate al campo. Ma secondo una notizia sicura, il generale avrebbe dovuto affrettarsi a farle nuovamente uscire per riprendere la posizione appena lasciata o per stabilirsi in un’altra richiesta dalle circostanze. Ogni militare dotato di buon senso non avrebbe dovuto tralasciare alcuna precauzione per evitare sorprese da parte del nemico e prevedere le misure da prendere per evitare i disordini. Ma Nieto ha lasciato gli affari nell’abbandono senza dare disposizioni ed è andato a Tiavalla con gli altri capi, a festeggiare la Settimana Santa. Il giorno dopo, verso le quattro del pomeriggio, è arrivata di corsa una spia a dire che il nemico era a Cangallo. C’è stato un pandemonio generale! Si correva a cercare Nieto, si radunavano gli Immortali, le truppe uscivano in disordine dalle caserme, i chacareros rifiutavano di marciare per la paura e i perruques del municipio infilavano una sciocchezza dopo l’altra.

Quello che è accaduto quella sera e la notte seguente, sarebbe impensabile per un Europeo. Se San-Roman fosse stato informato della situazione, avrebbe potuto impadronirsi della città quel giorno stesso, senza combattere. Nessuno sarebbe stato in grado di tirare un solo colpo di fucile per impedirlo. La guerra si sarebbe conclusa in tre ore. Si deve rimpiangere che ciò non sia accaduto, si sarebbe risparmiato molto sangue e si sarebbero evitati molti mali.