I conventi di Arequipa - inperuconfloratristan

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Arequipa è la città del Perù che possiede più conventi maschili e femminili. L’aspetto della maggior parte di essi, la calma perenne che li circonda, l’atmosfera religiosa che ne scaturisce, inducono a pensare che se sulla terra esistono la pace e la felicità, è in questi asili del Signore che esse risiedono, non nel mondo esterno e nella sua confusione. Ma, ahimè, non è nei chiostri che può essere soddisfatto il bisogno di riposo di un cuore disilluso dal mondo. All’interno di questi immensi edifici non c’è la quiete sepolcrale che il loro aspetto esterno, scuro e freddo, potrebbe far supporre, ma un’agitazione febbrile, ingabbiata ma non soffocata dalla regola. Il tumulto, sordo e nascosto, ribolle sotto la superficie, come la lava racchiusa nelle pareti del vulcano.  
Ogni volta che passavo davanti all’androne sempre aperto di uno di questi conventi in cui non ero mai entrata, o camminavo lungo le grandi mura nere del recinto, alte trenta o quaranta piedi, mi si stringeva il cuore. Provavo una profonda pena per le sfortunate vittime sepolte vive in quegli ammassi di pietra e gli occhi mi si riempivano di lacrime. Durante il mio soggiorno ad Arequipa, andavo spesso a sedermi sulla cupola in cima alla nostra casa. Da quella posizione lasciavo vagare lo sguardo sul vulcano, sul bel fiume che scorre ai suoi piedi, sulla valle ridente che esso bagna, sui due splendidi conventi di Santa-Catalina e di Santa-Rosa. Quest’ultimo, in particolare, stimolava i miei pensieri e catturava l’attenzione. Nel suo triste chiostro si era svolto un dramma commovente, la cui eroina era una giovane bella, innamorata e sfortunata! Questa ragazza era mia parente e io provavo molta simpatia per lei, ma a causa dei fanatici pregiudizi del mondo circostante potevo vederla solo di nascosto. Benché lei fosse fuggita dalla clausura due anni prima il mio arrivo ad Arequipa, l’impressione prodotta dalla sua fuga era ancora molto viva, perciò dovevo essere prudente nel mostrare interesse verso questa vittima della superstizione, altrimenti non avrei potuto esserle utile e avrei corso il rischio di aumentare il fanatismo dei suoi persecutori. Quello che Dominga – questo era il nome della giovane religiosa – mi aveva raccontato di sé mi invogliava a conoscere il convento dove aveva languito per undici anni! La sera, quando salivo sulla sommità della casa per ammirare i colori tenui e malinconici diffusi dagli ultimi raggi del sole che scompariva dietro ai tre vulcani e colorava di porpora le sue nevi eterne, i miei occhi si posavano involontariamente sul convento di Santa-Rosa. Nella mia immaginazione vedevo mia cugina Dominga vestita del lungo e pesante abito delle Carmelitane, vedevo il suo lungo velo nero, i suoi sandali di cuoio con le fibbie di rame e la disciplina di cuoio che pendeva fino a terra. Di tanto in tanto, la sventurata  stringeva con fervore l’enorme rosario e chiedeva a Dio di essere aiutata nell’esecuzione del suo progetto, poi lo stritolava fra le mani contratte da una rabbia disperata. Mi sembrava di vederla apparire in cima al campanile della bella chiesa di Santa-Rosa, dove era solita andare tutte le sere, con il pretesto di controllare le campane e l’orologio, affidati alle sue cure. Dall’alto della torre, la giovane poteva contemplare la stretta e graziosa valle dove aveva passato la sua infanzia felice. Vedeva la casa della madre, osservava le sorelle e i fratelli correre e folleggiare in giardino… Come le apparivano felici di scorrazzare e giocare in libertà! Come ammirava i loro vestiti colorati e i bei capelli ornati di fiori e di perle! Come le piacevano le loro scarpe eleganti, il grande scialle di seta, la sciarpa leggera di garza! A quella vista, l’infelice si sentiva soffocare sotto il peso dei pesanti vestiti: odiava la propria camicia, le calze, il vestito lungo e ampio, di ruvido tessuto di lana! Le scarpe dure le ferivano i piedi, il lungo velo nero di lana, sempre abbassato, era per lei come il coperchio della bara per il malato di letargia.
Dominga lo respingeva con un gesto convulso e dal suo petto uscivano gemiti sordi, mentre cercava di far passare le braccia fra le sbarre che chiudono le finestre del campanile. La povera reclusa desiderava solo un po’ d’aria, quella che Dio ha dato a tutte le sue creature, un piccolo spazio nella valle dove poter muovere le sue membra intorpidite, chiedeva solo di cantare le arie di montagna, di danzare con le sorelle, di indossare come loro delle piccole scarpe rosa e una leggera sciarpa bianca e di mettere dei fiori di campo fra i capelli. Non era molto, ma un voto terribile, solenne, che nessun potere umano poteva sciogliere, la privava per sempre dell’aria pura e dei canti gioiosi, dei vestiti adatti alla stagione e alla sua età, del movimento utile alla salute. A sedici anni la sventurata, spinta da un gesto di dispetto e di amor proprio ferito, aveva voluto rinunciare al mondo. L’ignara ragazza si era tagliata da sola i lunghi capelli, li aveva gettati ai piedi della croce, giurando davanti al Cristo di prendere Dio come sposo. La storia della monja aveva fatto rumore ad Arequipa e in tutto il Perù. Io l’ho trovata abbastanza straordinaria e ho deciso di inserirla nella mia relazione. Prima, però, voglio descrivere l’interno di Santa-Rosa.
In tempi normali, i conventi sono inaccessibili. Per entrare, ci vuole il permesso del vescovo che, dopo l’evasione della monaca, non viene più concesso. Ma nelle circostanze in cui si trovava la città, i monasteri offrivano asilo alla popolazione spaventata. Mia zia e Manuela giudicavano prudente rifugiarvisi e io ho approfittato di questa circostanza per informarmi sui dettagli della vita monastica. Poiché Santa-Rosa era sempre presente nei miei pensieri, ho fatto di tutto per convincere le mie parenti a dargli la preferenza rispetto a Santa-Catalina, dove sembravano più propense ad andare. Le superiore di questi due conventi erano nostre cugine. Entrambe ci avevano rivolto inviti affettuosi per attirarci offrendo l’ospitalità migliore. Santa-Rosa eccitava la nostra curiosità per la sua bellezza, ma le signore temevano l’estrema severità dell’ordine delle Carmelitane, che non si allentava in alcuna circostanza. Ho avuto molta difficoltà a vincere la loro resistenza, ma alla fine l’ho spuntata. Ci siamo recate al convento una sera verso le sette, dopo aver inviato una negra ad annunciarci.
Non credo che sia mai esistita, anche nello stato più monarchico, una aristocrazia più altezzosa, nelle sue distinzioni, di quella di Santa-Rosa, che mi ha riempita di stupore. Qui le classificazioni sono tutt’altro che vane e le gerarchie di nascita, di titolo, di ricchezza e di colore della pelle regnano in tutta la loro potenza. A veder camminare in processione le componenti della comunità, vestite con la stessa uniforme, si è portati a credere che una simile uguaglianza sussista in tutto il resto. Ma quando si entra in uno dei cortili si è sorpresi dall’orgoglio che le donne nobili manifestano verso e donne di nascita plebea, dal disprezzo che le religiose di pelle bianca mostrano verso quelle di colore, che le ricche mostrano verso le povere. Vedendo questo contrasto fra l’apparente umiltà e l’orgoglio più indomabile si è tentati di ripetere le parole del saggio: “Vanità delle vanità.”
Siamo state ricevute sulla porta dalle religiose mandate dalla superiora. La deputazione, con tutto il cerimoniale voluto dall’etichetta, ci ha condotte fino alla cella della madre, che era a letto malata. Il giaciglio era sorretto da una scala, sui gradini della quale erano sistemate molte religiose in ordine gerarchico. Gli scalini erano coperti da un tappeto di lana bianca ruvida, che dava al letto l’aspetto di un trono. Siamo rimaste abbastanza a lungo accanto alla venerabile superiora e una delle sue dame di compagnia ci ha spiegato, a bassa voce, che la madre era addolorata per essere stata costretta dalla malattia a usare lenzuola di tela anziché di lana e di aver infranto in questo modo la regola del sacro ordine delle Carmelitane. Le suore erano molto  curiose degli affari del mondo e, con esitazione e ritegno, mi hanno posto alcune domande sui costumi d’Europa. Dopo aver soddisfatto il loro desiderio di sapere, ci siamo ritirate nelle celle che ci avevano preparato. Ho chiesto a una delle giovani suore se poteva mostrarmi la cella di Dominga. “Domani vi darò la chiave – mi ha risposto - perché possiate entrare, ma non dite nulla, perché qui la povera Dominga è maledetta. Solo tre di noi osano compiangerla.”   
Santa-Rosa è uno dei conventi più grandi e più ricchi di Arequipa. La suddivisione interna dei locali è molto comoda. Ci sono quattro chiostri, circondati da grosse colonne di pietra che sorreggono una volta bassa, e ognuno di essi racchiude un cortile spazioso. Tutt’intorno si affacciano le celle delle religiose, in cui si entra da una piccola porta bassa. Le celle, dalle pareti bianchissime, ricevono luce da una finestra a quattro vetri. Il mobilio consiste in uno sgabello e un tavolo di quercia, su cui ci sono una brocca di argilla e un bicchiere di stagno. Sopra al tavolo è appeso un grande crocifisso, con un Cristo di osso ingiallito e annerito e la croce di legno nero; accanto, è attaccata la disciplina di cuoio nero.
Sul tavolo sono appoggiati alcuni libri di preghiere, un breviario, un teschio e una piccola clessidra. Solo la superiora può dormire nella sua cella, le suore la usano unicamente per meditare nell’isolamento e nel silenzio e per raccogliersi. Esse mangiano tutte insieme a mezzogiorno e alle sei in un immenso refettorio e, durante il pasto, una di loro fa la lettura di alcuni passi delle Sacre Scritture.
I dormitori delle religiose sono tre e sono costruiti in forma di squadra, con i soffitti a volta. Non ci sono finestre che lascino penetrare la luce del giorno. In un angolo c’è una lampada sepolcrale, che getta una luce appena sufficiente a rischiarare uno spazio di sei piedi, per cui le due estremità del dormitorio sono al buio. L’accesso ai dormitori è proibito alle persone estranee ma anche alle ragazze che lavorano nella comunità. Se ci si introduce di nascosto sotto alle volte scure e fredde delle lunghe sale, fra gli oggetti che non si distinguono ma che si percepiscono, si ha l’impressione di essere scesi nelle catacombe. I luoghi sono talmente lugubri che è difficile reprimere un moto di spavento. Le tombe sono allineate ai lati del dormitorio e fra l’una e l’altra ci sono dodici o quindici piedi di distanza. Per la loro forma e disposizione somigliano alle tombe che si vedono nelle cripte delle chiese. Sono ricoperte di lana nera, simile a quella dei paramenti delle cerimonie funebri.
L’interno è lungo dieci o dodici piedi, largo cinque o sei e alto altrettanto. Il letto è fatto di due grosse assi di quercia poggiate su quattro pioli di ferro e sopra c’è un grosso sacco di tela, riempito di cenere, di ciottoli, di paglia, di lana e persino di spine, secondo la santità di chi vi riposa. Nelle tre tombe in cui sono entrata il sacco era riempito di paglia. Ai piedi del letto, c’è un piccolo mobile di legno nero che serve da tavolo, da inginocchiatoio e da armadio. Sopra a questo mobile è posato un crocefisso, accanto al quale sono disposti un teschio, un libro di preghiere, un rosario e una disciplina. È severamente proibito, in qualunque circostanza, avere la luce nelle tombe. Quando una suora è malata, va all’infermeria. Pensare che in una di queste tombe la mia povera cugina Dominga aveva dormito per undici anni!
Queste religiose conducono una vita faticosa: si alzano alle quattro per andare al mattutino, poi devono assistere a una serie di pratiche religiose che si succedono quasi senza interruzione fino a mezzogiorno, quando sono chiamate in refettorio. Da mezzogiorno alle tre godono di un po’ di riposo, poi ricominciano con le preghiere che si prolungano fino a sera. Questi doveri si aggiungono alle numerose feste, con le processioni e le altre cerimonie imposte alla comunità.  Questa è la percezione che ho avuto dell’austerità e degli obblighi della vita religiosa nel chiostro di Santa-Rosa. Il solo passatempo di queste recluse è la passeggiata nei loro tre magnifici giardini, nei quali coltivano dei fiori splendidi, curati con grande amore.  
Quando prendono il velo, le suore di Santa-Rosa fanno voto di povertà e di silenzio. Quando due di loro si incontrano, una deve dire: “Sorella, noi dobbiamo morire” e l’altra deve rispondere: “Sorella, la morte è la nostra liberazione” senza pronunciare una sola parola di più. Tuttavia, esse parlano molto durante il lavoro in giardino, quando vanno a sorvegliare le donne di servizio in cucina, quando il dovere le chiama sulle torri e sui campanili e quando vanno a farsi visita di nascosto nelle celle. Insomma, le buone donne parlano ovunque esse credono di poterlo fare senza violare il voto. Poi, per mettersi la coscienza in pace, esse osservano un silenzio di tomba nei cortili, nel refettorio, in chiesa e soprattutto nei dormitori, dove mai si è udita voce umana. Non sarò certo io a mettere sotto accusa le piccole trasgressioni alla regola del santo ordine delle Carmelitane. Trovo del tutto naturale che esse cerchino le occasioni per scambiare qualche parola dopo le lunghe ore di silenzio. Vorrei, però, per la loro felicità, che si limitassero a parlare dei fiori che coltivano, delle buone marmellate che preparano e dei dolci squisiti che confezionano così bene, oppure delle magnifiche processioni, delle pietre preziose della Vergine o del loro confessore. Sfortunatamente, non si limitano a questi argomenti e nei loro colloqui regnano la critica, la maldicenza e la calunnia. È difficile farsi un’idea delle piccole gelosie e delle basse invidie provate, delle crudeli cattiverie messe in atto. I rapporti di queste religiose non sono viscidi e untuosi, ma sono ispirati all’aridità, all’asprezza e all’odio.  Anche nell’osservazione del voto di povertà queste donne non sono rigorose. Mi hanno detto che, secondo il regolamento, nessuna dovrebbe avere più di una ragazza al proprio servizio, invece, molte di loro hanno tre o quattro schiave, alloggiate all’interno del monastero e una all’esterno per fare le commissioni, comprare quello che desiderano, comunicare con la famiglia e con il mondo. Nella comunità vi sono alcune religiose in possesso di una fortuna considerevole, che fanno dei ricchi regali al convento e alla chiesa e mandano spesso ai conoscenti in città della frutta, dei dolci, dei piccoli lavori e, alle persone amate, dei doni di valore più grande.
Santa-Rosa è considerato uno dei monasteri più ricchi del Perù. Tuttavia, le religiose mi sono parse più infelici che in altri e l’esattezza della mia osservazione mi è stata confermata. Tutti mi hanno assicurato che l’austerità delle suore di Santa-Rosa superava di gran lunga quelle a cui si sottopongono le religiose degli altri conventi. Nei tre giorni in cui sono stata al Santa-Rosa, ho avuto molti colloqui con la superiora. Riporto alcuni passaggi per far conoscere lo spirito che guida questa comunità.
La superiora aveva allora sessantotto anni e dirigeva la comunità da diciotto. Da giovane doveva essere stata molto bella e il suo nobile aspetto rivelava una grande forza di volontà. Era nata a Siviglia e suo padre l’aveva messa a Santa-Rosa quando era venuta ad Arequipa all’età di sette anni per farle dare un’educazione. Da allora, non ne era più uscita. Parlava spagnolo con grande correttezza ed eleganza ed era istruita quanto può esserlo una religiosa. Le domande che mi ha fatto sull’Europa dimostravano che si era occupata molto degli avvenimenti politici che hanno sconvolto la Spagna e il Perù negli ultimi vent’anni.
Parlando di Dominga, mi ha detto: “Quella ragazza era indemoniata e sono contenta che il demonio abbia scelto il mio convento perché questo episodio servirà a ravvivare la fede delle altre sorelle. Mia cara Flora, vi confiderò una parte delle mie pene. Ogni giorno vedo spegnersi, nel cuore delle giovani suore, quella fede forte che, sola, può far credere ai miracoli.” Non credo che l’effetto prodotto dalla fuga di Dominga potesse essere quello sperato dalla superiora, anzi, esso mi sembrava di natura tale da provocare imitazione. Dubito anche che lei si facesse illusioni al riguardo, ma parlando davanti alle suore riteneva fosse suo dovere fare questa riflessione. Questa donna, così austera e rigorosa, ha saputo farsi obbedire e rispettare dalle sue religiose, usando il pugno di ferro, ma in  tanti anni di comando non ha ottenuto l’affetto sincero di alcuna di esse. I tre giorni passati in convento avevano talmente affaticato mia zia e le mie cugine che, malgrado i pericoli, non volevano restarvi più a lungo. Quanto a me, quella breve permanenza mi aveva permesso di raccogliere molte informazioni e non mi ero affatto annoiata. Le austere religiose ci hanno accompagnate all’uscita con lo stesso cerimoniale e la stessa etichetta con cui ci avevano accolte. Appena abbiamo oltrepassato l’enorme porta di quercia sbarrata e bardata di ferro come quella di una cittadella, ci siamo messe a correre nell’ampia via di Santa-Rosa, piangendo di gioia e gridando: “Dio, che felicità essere libere!” Anche i bambini e le negre saltellavano contenti. Per quanto mi riguarda, devo dire che respiravo molto meglio. Libertà, cara libertà, non c’è corrispettivo alla tua perdita, neanche la sicurezza, e niente al mondo ti può rimpiazzare!
Il giorno dopo il nostro ingresso a Santa-Rosa, Althaus ci aveva fatto sapere che la notizia che avevamo appreso dall’Indiano era falsa e che costui era un delatore. San-Roman non sarebbe arrivato prima di quindici giorni. Purtroppo, la sera in cui siamo uscite, mio cugino ha ricevuto un altro allarme. Sembrava sicuro che San-Roman fosse a Cangallo e la sua presenza in un luogo che si trovava a sole quattro leghe da Arequipa, rendeva il pericolo imminente. Appena si è diffusa la notizia, il disordine è stato di poco inferiore a quello creato dal primo allarme. Le campane suonate a martello, la gente rifugiata nei conventi, la confusione, il terrore non mi hanno fatto una buona impressione del coraggio di questo popolo vanaglorioso, che avrebbe dovuto difendere la città fino all’ultimo respiro. I conventi e le chiese si sono trasformati in magazzini per la custodia dei mobili, dove per quindici giorni è stato nascosto tutto quello che si poteva trasportare. Le case erano completamente vuote e sembravano essere state saccheggiate. Io stessa ho fatto portare i miei bauli a Santo-Domingo, con gli effetti personali dello zio. A mezzogiorno ci avevano detto che il nemico era a Cangallo e ci aspettavamo di vederlo arrivare verso le sei o le sette di sera. Le cupole delle case erano gremite di persone che guardavano in tutte le direzioni, ma l’attesa generale è stata delusa perché l’avversario ha prolungato la sosta.
Althaus, di ritorno dal campo, mi ha detto: “Cugina, questa volta è proprio vero che San-Roman è a Cangallo, ma i suoi soldati sono sfiniti e io sono sicuro che avranno bisogno di tre o quattro giorni per riprendersi. Potete andare a trovare Manuela e dall’alto delle torri del monastero vedrete la mischia come dalla casa di vostro zio. “
Ho seguito il suo consiglio e sono andata a Santa-Catalina a raggiungere le mie parenti, che vi si erano rifugiate.

Ero di nuovo in un convento, ma che differenza con quello che avevo appena lasciato! Sono stata accolta da un rumore assordante, dagli urrà e dal grido di: “La Francesita! La Francesita!”. Appena la porta si è aperta, sono stata circondata da una dozzina di suore che parlavano tutte insieme, ridendo e saltando di gioia.
Senza esagerare, sono rimasta un buon quarto d’ora sul portone d’ingresso che serviva anche da ruota, temendo a ogni istante di essere soffocata dal caldo nel poco spazio lasciatomi da quelle suore giubilanti e dalla moltitudine di negre e di samba che mi attorniavano. Le mie parenti, che avevano visto la difficoltà della mia posizione e avevano intuito la mia sofferenza, cercavano di aprirsi un varco a fatica fino al luogo in cui mi trovavo, mentre la mia samba gridava con tutte le sue forze che mi stavano soffocando, che mi facevano male e chiedeva aiuto. Ma le sue grida e quelle delle mie cugine erano coperte da più di cento voci all’unisono: “Ah, la Francesita, que bonita es, viene aqui a vivir con nosotros!”
Cominciavo seriamente a disperare di riuscire a liberarmi prima di perdere i sensi. Sentivo mancarmi le gambe, ero madida di sudore e stordita dal baccano che c’era intorno a me al punto che non sapevo più dove fossi. Finalmente è venuta a ricevermi la superiora, che era cugina di quella di Santa-Rosa e nostra parente allo stesso grado. Al suo arrivo, il rumore si è calmato un poco e la folla si è aperta per lasciarla venire verso di me. Mi sentivo veramente male, la brava donna se n’è accorta, ha sgridato severamente le suore e ha dato ordine di far rientrare le negre. Mi ha condotta nella sua cella, bella e grande, e, dopo avermi fatta sedere su dei ricchi tappeti e dei morbidi cuscini, mi ha fatto portare diversi tipi di dolci fatti in convento su uno dei più bei vassoi fabbricati a Parigi e dei vini di Spagna dentro a delle belle bottigliette di cristallo, con uno splendido bicchiere dorato ornato dallo stemma di Spagna.        
Appena mi sono rimessa, la superiora ha voluto accompagnarmi alla cella che mi aveva assegnato. Che amore di cella! Quante delle nostre padrone di casa francesi la vorrebbero come boudoir! Immaginate una piccola stanza con il soffitto a volta, larga dieci o dodici piedi e lunga quattordici o sedici, con il pavimento interamente coperto da un bel tappeto inglese dai disegni orientali, una piccola porta a ogiva e due piccole finestre nello stesso stile, guarnite di tende di seta color ciliegia con delle frange nere e azzurre. Lungo una parete della stanza c’era un piccolo letto di ferro verniciato, con un materasso di traliccio inglese e delle lenzuola di batista ornate di pizzo di Spagna. Di fronte, c’era un divano anch’esso di traliccio inglese, ricoperto da un ricco tappeto proveniente da Cuzco. Accanto al divano, c’erano dei cuscini per gli ospiti e dei graziosi sgabelli rivestiti di stoffa da tappezzeria. Nel muro di fondo c’era una nicchia occupata da una bella console con il ripiano di marmo bianco, che faceva abbastanza bene le veci di un piccolo altare. Sulla console c’erano molti bei vasi pieni di fiori naturali e artificiali, dei candelieri d’argento con delle candele azzurre, un piccolo messale rivestito di velluto viola e chiuso con un piccolo lucchetto d’oro. Sopra la console erano collocato un piccolo Cristo di quercia di bella fattura, accanto a una Vergine in una cornice d’argento e a santa Caterina e santa Teresa, dentro a guarnizioni preziose, ai lati. Attorno al collo del Cristo era avvolto un piccolo rosario dai grani piccoli e graziosi. Per completare questo elegante mobilio, al centro della stanza c’era un tavolo coperto da un grande tappeto, sul quale c’era un vassoio con quattro tazze da tè, una caraffa di cristallo, un bicchiere e tutto il necessario per rinfrescarsi. Questo magnifico eremo era il retiro della superiora, che mi dimostrava un’amicizia entusiasta per il solo motivo che venivo dal paese dove viveva Rossini. Malgrado le mie insistenze per non accettare, ella ha voluto a tutti i costi che io alloggiassi nel suo retiro. L’amabile religiosa mi ha tenuto compagnia fino a tardi. Abbiamo parlato soprattutto di musica e di affari europei, verso cui tutte mostrano un vivo interesse, poi si è ritirata circondata dalle sorelle, che la amano come una madre e un’amica.
In dieci anni di viaggi ho dovuto cambiare spesso letto e abitazione, ma non ricordo di aver mai provato una sensazione più deliziosa di quando mi sono coricata nel piccolo letto confortevole della superiora di Santa-Catalina. Come una bambina, ho acceso le due candele sull’altare, ho preso il piccolo rosario e il grazioso libriccino di preghiere e sono rimasta a lungo a leggere, interrompendomi spesso per ammirare gli oggetti che mi attorniavano o per respirare con voluttà il dolce profumo che emanava dalle lenzuola guarnite di pizzi. Quella notte ho avuto quasi il desiderio di farmi suora. Il giorno dopo mi sono alzata molto tardi, dato che l’indulgente superiora mi aveva esentata dalla messa delle sei, a cui dovevamo partecipare a Santa-Rosa. “Basta che vi facciate vedere a quella delle undici - mi aveva detto la brava donna - e se la salute non ve lo consente, vi dispenso dal partecipare anche a quella.” Il primo giorno abbiamo fatto visita a tutte le religiose, che volevano vedermi, toccarmi, parlarmi e che mi facevano domande su tutto. Come ci si veste a Parigi? Che cosa si mangia? Ci sono dei conventi? E, soprattutto, che musica nuova si esegue? Le trovavamo a gruppi nelle celle, che parlavano tutte insieme, ridevano, dicevano frasi argute, ci offrivano dolci di ogni genere, frutti, marmellate, creme, zucchero candito, sciroppi e vini di Spagna. Era un susseguirsi di banchetti. La superiora aveva organizzato un concerto serale nella sua piccola cappella. Ho ascoltato della buona musica con i più bei brani di Rossini, eseguiti da tre giovani e graziose suore che amavano le note non meno della loro superiora. Il pianoforte era uscito dalle mani del più abile artigiano di Londra e la superiora lo aveva pagato quattromila franchi.
Anche Santa-Catalina appartiene all’ordine delle Carmelitane, ma, come mi ha fatto osservare la superiora, con molte modifiche. “Oh sì! – ho pensato - con immense modifiche…”
Queste suore non portano lo stesso abito di quelle di Santa-Rosa. La loro veste è ampia, di tessuto leggero e setoso, è di un biancore abbagliante e ha lo strascico. Nei giorni di festa solenne portano un velo nero e una cuffia di crespo dello stesso colore, con un plissé talmente grazioso che avrei voluto portarne via una con me, come oggetto di curiosità. La sua forma aggraziata rende armoniosa la fisionomia di chi lo porta. Il velo è abbassato solo in chiesa e nelle cerimonie pubbliche. Queste pie donne parlano abbastanza e spendono quasi tutte molto, perciò si è indotti a  credere che non facciano voto né di silenzio né di povertà. La chiesa del convento è grande e gli addobbi sono ricchi, ma tenuti male. Solo l’organo è molto bello, i cori e tutto ciò che concerne la musica sono oggetto di cure particolari da parte delle religiose. L’edificio del convento, composto da due corpi, uno vecchio e uno nuovo, è piuttosto bizzarro. Le celle della parte nuova sono piccole ma ariose e piene di luce e si affacciano su tre piccoli chiostri di elegante costruzione, al centro dei quali c’è un cortile con un’aiuola di fiori e due belle fontane che garantiscono freschezza e pulizia. L’esterno dei chiostri è piantato a vigneti. Il vecchio convento è un vero labirinto di vie e viuzze in tutte le direzioni, attraversate da una strada principale lungo la quale ci si arrampica, come su di una scala. Su quel dedalo di sentieri si affacciano le celle, che costituiscono gli avancorpi della costruzione originaria e che sono come delle piccole case di campagna per le religiose che vi abitano. Alcune hanno un cortile d’ingresso abbastanza spazioso da allevare i polli. Vi si affacciano la cucina e l’alloggio delle schiave, mentre su un secondo cortile si affacciano due o tre stanze con un giardino sul retro e un piccolo retiro dal tetto a terrazza. Da più di vent’anni queste suore non fanno vita comune, il refettorio è abbandonato, come pure il dormitorio anche se, per rispettare la forma, ognuna vi conserva il proprio letto bianco, come esige la regola. A differenza delle Carmelitane di Santa-Rosa, esse non sono tenute a tutte quelle pratiche religiose che occupano la giornata. Dopo aver compiuto i loro doveri, hanno molto tempo libero che dedicano alla cura dell’abitazione e degli abiti, alle  opere di carità e anche al divertimento. La comunità dispone di tre vasti giardini che producono mais e ortaggi, mentre i fiori vengono coltivati nei giardini delle celle. Le suore conducono una vita molto laboriosa, eseguono ogni sorta di lavoretti di cucito, prendono delle pensionanti che istruiscono e hanno una scuola frequentata gratuitamente dalle bambine povere. La loro carità si estende a tutti i campi: offrono la biancheria agli ospedali, la dote alle ragazze, distribuiscono il pane e il mais ai poveri  e regalano i vestiti. Le entrate di questa comunità raggiungono somme enormi, che le suore elargiscono in proporzione alla rendita.
La superiora, nominata e destituita a più riprese, è sempre stata osteggiata dai preti che avevano autorità sul convento a causa della sua estrema bontà, la stessa che la faceva ogni volta rieleggere dalle religiose, che avevano il diritto di voto. Aveva settantadue anni ed era una donna amabile, l’esatto opposto di sua cugina di Santa-Rosa, e talmente sottile e delicata da sparire quasi del tutto nell’abito lungo e ampio. Era stata malata tutta la vita e l’unica cosa che recava un po’ di sollievo ai suoi mali era l’ascolto di buona musica. Il viso e le mani, decrepite, rivelavano la sua età, ma era inimmaginabile trovare una vivacità e un dinamismo così grandi in una donna della sua età, con un fisico così fragile. La sua conversazione era allegra e piena di battute originali e argute e nessuna delle suore giovani la superava nella passione che metteva nel parlare. Quando le ho riferito il discorso della superiora di Santa-Rosa, lei ha alzato le spalle e, con un sorriso di pietà e un’espressione eloquente, ha detto: “Mia cara ragazza, se avessi trent’anni, verrei con voi a Parigi ad assistere ai capolavori sublimi dell’immortale Rossini rappresentati all’Opéra. Una sola nota di quest’uomo di genio è più utile alla salute morale e fisica dei popoli di quanto lo siano stati per la religione gli spettacoli orrendi degli autodafé della Santa Inquisizione.”             
A Santa-Catalina le suore facevano più o meno quello che volevano, la superiora era troppo buona per disturbarle o per contrariarle. L’unico tipo di aristocrazia che ho notato nel convento era quella dettata dalla ricchezza, che sopravvive anche nel cuore delle democrazie più avanzate. Le religiose di Santa-Catalina erano davvero progredite. Tre di loro erano considerate regine del luogo. La prima, che all’epoca della mia visita poteva avere trentadue o trentatré anni, era stata messa in convento all’età di due anni. Apparteneva ad una delle famiglie più ricche della Bolivia e al suo servizio aveva otto negre, le samba. La seconda, di origine catalana, era una giovane di ventotto anni, alta, snella e con la bellezza ardita e viva delle donne di Barcellona. Era orfana, aveva quarantamila lire di rendita e viveva al monastero da cinque anni. La terza, un’affabile creatura di ventiquattro anni, buona, allegra e ridente, era suora da sette anni. La più grande si chiamava Margarita ed era la farmacista del convento. La seconda, Rosita, era la portinaia. La più giovane, Manuelita, era troppo leggera e incosciente per avere anche il più piccolo incarico.
Sin dal giorno dopo il nostro arrivo, tutte e tre avevano manifestato un vivo desiderio di ascoltare il racconto dettagliato della storia della povera Dominga e nel convento correva voce che avessero in mente un’avventura ancora più terribile della sua. Rosita aveva la stessa età di Dominga, che aveva conosciuto da bambina, e aveva per lei il più grande interesse. Mia cugina Althaus non chiedeva di meglio e si è offerta allegramente di raccontare, forse per la ventesima volta, questa storia, per soddisfare la curiosità delle tre donne. La sera precedente la nostra partenza Manuelita ci ha invitate a cena, in modo da poter parlare a nostro piacimento con lei e con le sue amiche. Il banchetto ha concluso allegramente i sei giorni piacevoli passati in quel luogo.  
Manuelita ci ha ricevute nel suo piccolo alloggio grazioso nel convento vecchio. Il convito è stato uno dei più eleganti e con il servizio migliore fra quelli a cui ho partecipato durante il mio soggiorno ad Arequipa. C’erano belle porcellane di Sèvres, biancheria damascata, argenteria elegante e coltelli vermeil per il dessert. Quando è terminato, la graziosa Manuelita ci ha invitate a passare nel retiro, ha chiuso la porta del giardino e ha dato ordine alla negra di non disturbarci per nessuna ragione.
Il retiro non era grazioso come quello della superiora, ma più originale. Essendo straniera,
quelle donne mi trattavano con tutti gli onori. Mi hanno lasciato tutto il divano e io mi sono allungata comodamente, appoggiandomi ai cuscini di seta. Le tre religiose, elegantissime nel loro abito a pieghe larghe, hanno preso posto attorno a me. Rosita era seduta su di un cuscino di velluto, con le gambe incrociate secondo l’uso del paese e si appoggiava al piede del divano. La buona Manuelita era seduta vicino a me e giocava con i miei capelli, sciogliendoli e intrecciandoli in modi diversi. La seria Margarita, al centro, mostrava compiaciuta la sua bella mano bianca e grassottella che correva sui grossi grani del rosario d’ebano. Mia cugina, come richiesto dal suo ruolo di protagonista, era seduta di fronte all’uditorio, su di una grande poltrona antica, con un grosso cuscino sotto ai piedi.
Ha cominciato a parlare dei motivi che avevano indotto Dominga a farsi suora. “Dominga era la più bella di tre sorelle e già a quattordici anni la sua avvenenza ispirava sentimenti d’amore. Piacque a un giovane medico spagnolo che, venuto a sapere che era ricca, cercò con ogni mezzo di farsi amare da lei, cosa facile, del resto. Dominga nasceva allora al mondo, era tenera e ingenua e lo amò come si ama a quell’età, con sincerità e fiducia, credendo, povera ragazza, che l’amore che ispirava fosse uguale a quello che provava. Lo Spagnolo la chiese in moglie e la madre acconsentì ma, temendo che la figlia fosse troppo giovane, volle che il matrimonio non fosse celebrato prima di un anno. Lo Spagnolo, come quasi tutti gli Europei che approdano qui, era dominato dall’avidità. Vagheggiava grandi ricchezze e l’unione con Dominga gli pareva un mezzo per conquistarle. Qualche mese dopo la richiesta egli rinunciò all’amore sincero di questa ragazza per una vedova senza qualità ma molto danarosa e non mostrò la più piccola preoccupazione per il profondo dolore che le avrebbe causato abbandonandola. Il tradimento dello Spagnolo ferì profondamente il cuore di Dominga. Il matrimonio era stato annunciato pubblicamente a tutta la famiglia e la sua fierezza non poté sopportare questo oltraggio. La giovane si sentiva umiliata e i tentativi di consolarla non facevano che aumentare un dolore che avrebbe voluto celarsi anche a se stesso. Nella sua disperazione, ella vide come unico rifugio il convento. Comunicò alla famiglia che Dio la chiamava a sé e che era decisa a entrare in monastero. I parenti unirono gli sforzi per dissuaderla, ma le sofferenze del cuore e lo stato di esaltazione in cui era non le permisero di ascoltare le preghiere. Fu tutto inutile. La giovane si mostrò indifferente ai rimproveri quanto era stata sorda ai consigli. La resistenza incontrata in famiglia e il suo coraggio testardo la portarono a scegliere il convento delle Carmelitane, con la regola più rigida. Dopo un anno di noviziato, Dominga prese il velo a Santa-Rosa.         
Sembra che nei primi due anni a Santa-Rosa, grazie al fervore del suo zelo, Dominga fosse felice. Passato questo periodo, però, ella cominciò a stancarsi della severità e dell’esaltazione morale dell’ordine e alcune riflessioni tardive le fecero versare lacrime sul destino che si era costruita da sola. Non osò parlare del suo dolore e dei suoi guai ai parenti, che si erano fermamente opposti alla sua decisione e che, d’altra parte, non avrebbero potuto aiutarla.”
“Voi sapete – continuò mia cugina – che una volta entrate in uno dei vostri ritiri, non se ne esce più e ogni rimpianto è inutile.” Le tre religiose si guardarono furtivamente e ci fu tra loro uno sguardo d’intesa che non ci sfuggì.
“La sventurata Dominga chiuse il suo dolore nel cuore e, senza sperare che qualcuno potesse recarle sollievo, si rassegnò a soffrire, aspettando la morte come la fine dei suoi mali. Ella considerava ormai il convento come una prigione e la sua salute, un tempo eccellente, si indeboliva ogni giorno. Le guance non avevano più il colorito acceso che aveva dato tanto splendore alla sua bellezza quando viveva nel mondo, ma erano di un pallore mortale, i suoi begli occhi erano spenti e infossati nelle orbite, come quelli dei penitenti sfiniti dalle austerità del chiostro. Verso la fine del terzo anno, la lettura di un passo di Santa Teresa in refettorio venne a darle la speranza della liberazione.
Il brano descrive i mille modi ingegnosi in cui il demonio induce in tentazione le monache. La santa riferisce la storia di una suora di Salamanca che cedette al desiderio di evadere dal convento. Il demonio le aveva suggerito l’idea di mettere un cadavere di donna nel  letto della sua cella per far credere alla comunità di essere morta e per avere il tempo, con l’aiuto di un messaggero del diavolo, dall’aspetto di un bel giovane, di mettersi in salvo dagli alguazil della Santa Inquisizione.        
Per la ragazza fu un lampo improvviso. Anche lei avrebbe potuto uscire dalla sua prigione come la religiosa di Salamanca! Da quel momento, nel suo animo entrò la speranza e finì l’angoscia. Il tempo le bastava appena per pensare al modo di realizzare il suo progetto. Nessuna pratica le sembrava troppo austera e nessun dovere penoso perché vedeva un termine a essi. Il suo modo di essere verso le altre suore cambiò completamente. Cercava tutte le occasioni per parlare con loro e conoscerle a fondo. Si intratteneva soprattutto con la suora portinaia, il cui incarico durava solo due anni. A ogni cambio, ella si sforzava, con le sue assidue attenzioni, di entrare nelle grazie della nuova arrivata. Per assicurarsi la devozione illimitata della negra che faceva le commissioni fuori dal convento, si mostrò molto buona anche con lei. Prudente e perseverante, la giovane non dimenticava nulla che potesse agevolare il suo piano.  
Trascorsero ben otto anni prima che potesse realizzarlo, durante i quali passò più volte dalla gioia delirante del prigioniero pronto a evadere con destrezza e coraggio, allo scoramento profondo e alla disperazione dello schiavo sorpreso al momento della fuga e riconsegnato nelle mani del padrone crudele. Sarebbe troppo lungo raccontare le ansie e i timori che si alternavano alle speranze. A volte, dopo aver passato un paio d’anni ad adulare una vecchia portinaia dura e arcigna, quando si credeva sicura della sua simpatia e discrezione, succedeva qualcosa che le faceva vedere il pericolo corso se avesse fatto l’imprudenza di fidarsi di lei. Il pensiero le causava brividi di terrore e, spaventata dal rischio, lasciava passare molti mesi prima di fare altri tentativi. A volte, una portinaia che sembrava buona e capace di tenere il segreto, era sostituita da una specie di cerbera, la cui voce raggelava la povera Dominga. La giovane religiosa ha vissuto per otto anni in mezzo a queste crudeli ansietà e non si capisce come la sua salute abbia potuto resistere a una agonia così lunga. Alla fine, sentendo di essere allo stremo delle forze, decise di aprirsi con una compagna a cui si era legata e che era appena stata nominata portinaia. La sua fiducia fu ben riposta e quando fu sicura dell’aiuto e del silenzio della sua alleata, pensò a come procurarsi i mezzi per attuare il suo piano. Doveva affidarsi alla schiava negra che le faceva le commissioni, senza il suo aiuto era impossibile riuscire. Questa fiducia era piena di pericoli ma Dominga fu ammirevole per il coraggio e la perseveranza mostrati nel portare avanti il suo piano d’evasione. Comunicava con la sua negra sono attraverso la grata in parlatorio e le sue parole avrebbero potuto essere ascoltate da una delle suore che andavano e venivano silenziosamente e incessantemente e che tenevano le orecchie ben aperte. Ecco il piano che Dominga aveva concepito e che ebbe l’ardire di esporre alla negra, offrendole una ricca ricompensa per compensarla dei pericoli a cui si esponeva.
Occorreva che la negra si procurasse una donna morta e che la portasse al convento al calar delle tenebre. La portinaia avrebbe dovuto aprirle la porta e farle vedere dove nascondere il cadavere. Dominga sarebbe venuta a prenderlo durante la notte, lo avrebbe portato sul suo letto, gli avrebbe dato fuoco, poi sarebbe scappata via mentre le fiamme bruciavano il cadavere e la tomba. La negra portò il cadavere solo molto tempo dopo essere entrata a far parte dell’impresa della sua padrona. Sarebbe stato pericoloso chiedere una salma all’ospedale, che, tra l’altro, l’avrebbe data solo ai chirurghi per un uso specifico. Era quasi impossibile ottenere il corpo di una donna morta in casa. Si può star certi che senza i buoni uffici di un giovane medico che fu messo a parte della cosa, l’amica di Dominga sarebbe giunta al termine dei due anni in portineria prima che la schiava avesse potuto procurarsi il cadavere che doveva far credere alla morte della sua padrona. In una notte scura, la negra vinse le sue paure pensando alla ricompensa promessa e si caricò sulle spalle il cadavere di una donna indiana morta tre giorni prima. Arrivata alla porta del convento, la samba fece il segnale convenuto. La portinaia aprì tutta tremante e la negra depose in silenzio il suo fardello nel luogo che le veniva indicato. La schiava andò poi a mettersi nella curva di via Santa-Rosa ad attendere la sua padrona.
Dominga era in preda alla più viva preoccupazione per gli ostacoli che continuavano a impedire l’esecuzione del suo progetto. Attendeva con ansia il risultato degli ultimi passi intrapresi per procurarsi un cadavere, quando la sua amica portinaia venne ad avvertirla che la negra ne aveva introdotto uno in convento. Dominga cadde in ginocchio e baciò la terra, rimanendo a lungo in quella posizione, poi portò gli occhi sul Cristo, come sprofondata in un sentimento ineffabile d’amore e di riconoscenza.
La sera, la portinaia chiuse la porta con il catenaccio ma non girò la chiave, poi la portò, come al solito, alla superiora e si ritirò nella sua tomba. Quando Dominga ritenne che tutte le religiose fossero addormentate, uscì dalla sua tomba, dove aveva lasciato la sua piccola lanterna cieca, e andò a prendere il cadavere.
Era un carico pesante per le sue esili braccia, ma che cosa non spinge a fare l’amore per la libertà? Dominga sollevò l’orribile fardello con la stessa facilità di un cestino di fiori, lo depose sul letto, lo rivestì dei propri abiti poi, dopo aver indossato un abito nuovo, diede fuoco al letto e prese la fuga, lasciando la porta del convento spalancata.”
Mia cugina si è fermata nel racconto e le tre religiose di Santa-Catalina si sono guardate di nuovo con un’aria di complicità, che mi ha fatto intuire i loro pensieri. Dopo qualche istante di silenzio, suor Margarita ha chiesto che cosa fosse successo al convento dopo l’evasione di Dominga e come fosse stata considerata la fuga.
“Nessuno sospettò la verità. – ha ripreso a dire mia cugina - La suora portinaia, che non dormiva, corse dietro a Dominga per chiudere la porta con il catenaccio. Poi, nella confusione generata dall’incendio, prese la chiave dalla stanza della superiora e chiuse la porta come sempre. Tutti furono convinti che Dominga fosse morta bruciata. I resti del cadavere erano irriconoscibili e furono inumati con la cerimonia in uso per la sepoltura delle suore.  
Due mesi dopo cominciò a diffondersi la verità, ma le suore di Santa-Rosa non vollero prestarvi fede e quando l’esistenza in vita di Dominga non era più un dubbio per nessuno, le sorelle continuavano a sostenere che lei era morta e che quello che si raccontava sulla sua presunta evasione era una calunnia. Ne furono convinte solo quando Dominga fece causa alla superiora per la restituzione delle diecimila piastre di dote.”
Abbiamo lasciato le suore immerse in una fantasticheria che non volevamo interrompere. “Scommetto – ho detto a mia cugina – che fra meno di due anni queste religiose non saranno più qui.” “Lo penso anch’io – mi ha risposto – e ne sarei contenta. Queste tre ragazze sono troppo belle e gentili per vivere in convento.”
L’indomani siamo uscite da Santa-Catalina. Vi eravamo rimaste sei giorni e le suore avevano adoperato ogni cura per farceli passare in modo gradevole: magnifici pranzi, deliziose merende, gradevoli passeggiate in giardino e negli angoli più interessanti. Siamo state accompagnate alla porta da tutta la comunità, alla rinfusa, senza cerimonie e senza etichetta, ma con un affetto sincero e toccante. Abbiamo pianto con loro per la pena della separazione. Era stata un’esperienza molto diversa da quella di Santa-Rosa.  Questa volta lasciavamo con rimpianto il convento. Per strada, ci siamo fermate a più riprese per posare lo sguardo sulle torri di quell’asilo ospitale. Anche i bambini e le schiave, che non finivano di elogiare la bontà di quelle religiose gentili, erano tristi.
La settimana successiva non passava giorno senza che ricevessimo dal convento dei doni di ogni tipo. Avevo serbato un ricordo così piacevole dell’accoglienza ricevuta a Santa-Catalina, che prima di partire da Arequipa sono andata molte volte nel parlatorio a chiacchierare con le mie vecchie amiche e ogni volta esse mi riempivano di regali. Mi hanno anche chiesto di mandare loro delle musiche di Rossini quando fossi tornata in Francia.      


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