

La costa del Perù è estremamente arida. Islay e i suoi dintorni hanno un aspetto desolato, soltanto il porto è sorprendentemente prospero. Quando è stato creato, vi erano solo tre capanne e il capannone della dogana. Sei anni dopo, Islay aveva almeno un migliaio di abitanti. La maggior parte delle case sono di bambù con i pavimenti di terra battuta, ma ve ne sono alcune di legno, molto graziose, con delle eleganti finestre e con il pavimento di legno. La casa del console inglese è stupenda. La dogana è un grande edificio di legno e anche le dimensioni della chiesa, che è abbastanza bella, rispecchiano l’importanza del luogo.
Il porto di Islay si trova in una posizione migliore di quello di Arica e per questo gli ha sottratto tutto il traffico. Se continua a prosperare come ha fatto negli ultimi sei anni, di qui a dieci la città potrebbe avere una popolazione di quattro o cinquemila abitanti, anche se l’aridità del suolo sarà per lungo tempo un grosso ostacolo al suo sviluppo. In questo paese arretrato i pozzi artesiani sono del tutto sconosciuti. Per dissetarsi, Islay dispone solo di una piccola sorgente che in estate è spesso asciutta e costringe gli abitanti a lasciare le proprie case. Il suolo è formato da sabbia nera e pietrosa e sarebbe fertile se si potesse irrigare.

Approfittando della sua offerta d’aiuto, l’ho pregato di precedermi in città, per consegnare una lettera di raccomandazione all’amministratore della dogana, al direttore della posta don Justo di Medina e all’uomo d’affari dello zio. Alle undici, dopo aver pranzato, ci siamo preparati e abbiamo lasciato il Leonidas con tutti i bagagli.

Abbiamo attraversato il villaggio percorrendo la strada principale che ha un fondo molto irregolare, con delle rocce che affiorano in alcuni punti e la sabbia in cui si sprofonda in altri. Tutti mi guardavano perché rappresentavo un avvenimento.
Don Justo mi ha ceduto la stanza più bella della casa e la moglie e la figlia si sono affrettate a offrirmi tutto ciò che pensavano mi fosse gradito. Il povero dottor Castellac, mio compagno di viaggio, si aggrappava a me e, per ricompensarlo delle sue cure durante la traversata, ho detto che era il mio medico personale, in modo che potesse godere della generosa ospitalità con cui era accolta la nipote di don Pio. Anche lui ha avuto una stanza nella casa di don Justo e da quel momento l’ho sempre ritrovato al mio fianco.
Dalla mia stanza vedevo le persone che venivano a parlare con don Justo o a far visita alle signore in una stanza accanto al suo ufficio. Ero sorpresa di vedere tutta quella gente che andava e veniva con l’aria preoccupata e indaffarata. Io parlavo poco lo spagnolo, ma lo capivo bene e, da alcune frasi colte al volo, ho intuito di essere io la causa delle visite.

Ero talmente stanca che attendevo con impazienza il momento in cui gli invitati sarebbero andati via. Finalmente ho potuto andarmi a coricare ma, ahimè!, appena a letto, ho avuto la sensazione di trovarmi in un formicaio di pulci.
Dopo il mio arrivo, mi era già capitato di essere infastidita da questi insetti, ma mai fino a questo punto. Non sono riuscita a chiudere occhio, le loro punture mi hanno infiammato il sangue, procurandomi la febbre. Quando ho visto albeggiare mi sono alzata e sono uscita all'aria aperta. In cortile, ho trovato il dottore che si lavava la faccia, il collo e le braccia e malediceva le pulci. Per tutta risposta, gli ho mostrato le mie mani tutte coperte di vesciche. Al buon Justo è dispiaciuto che le pulci non ci avessero fatto dormire e sua moglie mi ha detto imbarazzata: “Signorina, ieri sera non ho osato dirvi quel che si deve fare per diminuire il fastidio, ma questa sera ve lo farò vedere.”

Più tardi, l’agente di mio zio è venuto a dirmi di aver fatto partire un corriere per Camana per avvertire i parenti del mio arrivo. Era sicuro che mio zio, appena saputo che ero ad Islay, avrebbe mandato qualcuno a prendermi.
Ho riflettuto qualche istante. Da quello che sapevo di mio zio, non mi sembrava prudente andare nella sua casa di campagna e rimettermi alla sua discrezione. Sarebbe stato meglio andare ad Arequipa a prendere informazioni, tastare il terreno e aspettare che fosse lui ad affrontare la questione dei nostri interessi. Ho risposto a quell’uomo d’affari che sarei partita il giorno dopo per Arequipa, perché ero troppo affaticata per andare a Camana e ho incaricato il dottore dei preparativi del viaggio, affinché potessimo metterci in marcia l’indomani all’alba.
Ho trascorso il resto della giornata a ricevere visite di commiato e a visitare il paese. La sera sono andata dall’amministratore della dogana, che mi aveva invitata a prendere il tè. Per rendere più splendida la sua ospitalità, egli aveva fatto venire dei musicisti e dei danzatori del posto. Il ballo è andato avanti fino all'una di notte. Per tenermi sveglia ho bevuto diverse tazze di caffè, molto buono ma eccitante.

Questo procedimento mi ha dato due ore di tranquillità, poi sono stata di nuovo assalita da migliaia di pulci che nel frattempo avevano raggiunto il letto. Bisogna aver vissuto nei paesi dove questi insetti abbondano per capire il supplizio causato dai loro morsi. Il dolore che si prova irrita i nervi, infiamma il sangue e dà la febbre. Il Perù ne è infestato e per le strade d’Islay le si vede saltare sulla sabbia. Anche se è impossibile liberarsene completamente, con una maggiore pulizia nelle abitudini di vita esse sarebbero molto meno fastidiose.


Don Justo mi ha prestato un tappeto, da mettere sopra al cuscino imbottito di paglia che fungeva da sella, che qui viene chiamato torche. Mi sono arrangiata alla meglio, anche se tutti mi dicevano che era un’imprudenza affrontare un viaggio così lungo e faticoso con una simile cavalcatura e che sarebbe stato meglio rimandarlo. Ma da giovani si è pieni di fiducia e si accetta malvolentieri un ritardo. Facevo affidamento sulla mia forza morale e sulla volontà che non mi ha mai tradita. Non ho tenuto in alcun conto le preghiere del buon Justo, di sua moglie e di sua figlia, che mi ripetevano di aver rischiato di soccombere di fatica durante il loro ultimo viaggio ad Arequipa.
Alle cinque del mattino dell’11 settembre 1833 mi sono messa in viaggio.
All’inizio, mi trovavo abbastanza bene sulla mula. Il caffè che avevo bevuto mi dava l’illusione di essere forte e mi sentivo instancabile, soddisfatta della mia decisione.


Questo aspetto militaresco contrastava comicamente con la sua figura gracile e con il suo vestito misero. Portava dei pantaloni di pelle che aveva indossato anche in Messico, degli stivali con il risvolto e dei lunghi speroni, una giacca da caccia in panno verde così attillata che sembrava sul punto di scoppiare. In testa aveva una calotta di seta nera e sopra un enorme cappello di paglia. A tutto questo va aggiunta una serie di bottiglie e di panieri appesi sul davanti del mulo, mentre dietro vi erano coperte, tappeti, foulard e cappotti. In breve, tutto l’armamentario dell’uomo che, pur abituato a viaggiare nel deserto, ha paura di mancare del necessario.
Io, che ignoravo tutto dei viaggi, ero partita come se avessi dovuto andare da Parigi a Orléans. Portavo degli stivaletti di traliccio grigio, una vestaglietta di tela bruna, un grembiule di seta nella cui tasca c’erano un coltello e un fazzoletto e un piccolo cappello blu di tela indiana. Avevo anche un cappotto e due foulard.

Pensavo che il pianto mi avrebbe sollevata, invece mi ha fatto venire un gran mal di testa. Il caldo cominciava ad essere insopportabile e la spessa polvere bianca, sollevata dagli zoccoli degli animali, aumentava le mie sofferenze. Mi occorreva tutta la determinazione possibile per continuare a restare in sella. Don Balthazar sosteneva la mia forza morale assicurandomi che, una volta fuori dalle gole della montagna, saremmo stati in uno spazio aperto con aria pura e fresca. Avevo una sete inestinguibile e bevevo in continuazione acqua mischiata a vino. Di solito questa mistura è efficace, ma il vino locale è molto forte e inebriante e ha raddoppiato il mio mal di testa.

Ho lasciato scorrere lo sguardo sulla sabbia brillante e ondulata ed ho seguito i suoi flutti argentei fino al punto in cui si confondevano con la volta azzurra, poi ho osservato le alte montagne che si allungavano in una catena infinita, con migliaia di cime coperte di neve che scintillavano ai raggi del sole e che chiudevano a ovest il deserto con i colori del prisma. Poi ho rivolto lo sguardo verso i tre vulcani di Arequipa uniti alla base e ramificati come un candelabro a tre braccia, che si illuminava di una solennità misteriosa, simbolo di una trinità che va al di là della nostra comprensione umana.

I due signori che viaggiavano con noi non mi avevano avvertita, perché non avevano voluto privarmi dell’effetto che avrebbe avuto su di me la vista di quelle grandi opere della creazione. Don Balthazar, che osservava con piacere il mio rapimento, con un vivo sentimento di orgoglio nazionale mi ha chiesto:
“Ebbene, signorina, che cosa ne dite di questo panorama? Avete niente di simile nella vostra bella Europa?”
“Don Balthazar, la creazione rivela ovunque la grande e onnipotente intelligenza del suo autore, ma qui essa si manifesta in tutta la sua gloria. Questo spettacolo solenne merita un viaggio dalle estremità della terra.”


“Don Balthazar – ho chiesto spaventata – è metallo liquido quello in cui siamo? Dobbiamo ancora camminare a lungo in questo mare di fuoco?”
“Avete ragione, signorina, la sabbia infuocata sembra vetro fuso.”
“Ma è sabbia liquida?”
“E’ l’effetto del miraggio che la fa apparire tale, signorina. Guardate le nostre mule da soma che vi affondano fino al ginocchio, sono ansimanti e la sabbia brucia loro i piedi. Tuttavia, anch’esse credono di vedere in lontananza una pozza d’acqua e, spinte dalla sete ardente e insopportabile, raddoppiano gli sforzi per raggiungere quell’onda fuggitiva. Le povere bestie non potrebbero resistere a lungo al supplizio di questo inganno.”
“Abbiamo dell’acqua per dissetarle?”
“Non diamo mai da bere agli animali durante il viaggio. Il proprietario del tambo 3) ha una provvista d’acqua per i viaggiatori in arrivo.”
“Don Balthazar, malgrado quello che mi avete appena detto, io ho ancora l’impressione di vedere le onde.”

“Quindi è pericoloso trovarsi nella pampa quando soffia il vento?”
“Oh, sì! Alcuni anni fa, una tromba d’aria ha sepolto nella sabbia muli e mulattieri che erano in viaggio da Islay ad Arequipa, ma questi episodi sono rari.”Ho smesso di parlare, ho pensato alla debolezza dell’uomo, ai pericoli a cui è esposto in queste distese inabitate e la paura si è impadronita di me. “La tempesta nel deserto - riflettevo - è ancora più temibile di quella sull’oceano. In questa sabbia sconfinata, la sete e la fame sono una minaccia continua. Chi si perde o si ferma, perisce. Vanamente si agita e guarda in tutte le direzioni: non il più piccolo filo d’erba gli si offre alla vista. Circondato da ogni parte da una natura senza vita, separato dai suoi simili da un’immensità che i suoi sforzi non riescono a superare, non ha speranza. E nel momento dell’angoscia questo essere così orgoglioso deve riconoscere di non essere nulla là dove Dio non provvede a lui.” Ho invocato Dio con fervore perché venisse in mio aiuto e mi sono affidata alla sua provvidenza.
Ho guardato i miei compagni di viaggio. Il dottore era tetro e silenzioso, don José era preoccupato per la lentezza del cammino, don Balthazar, abituato a viaggiare nel deserto e fiducioso nelle proprie forze, sembrava il solo a non essere inquieto.
Verso mezzogiorno, il caldo è diventato intenso e il mio mal di testa è raddoppiato al punto da non permettermi più di stare in sella. Il sole e il riverbero della sabbia mi bruciavano il viso e una sete violenta mi seccava la gola.
Non riuscivo più a vincere la stanchezza, che mi faceva cadere come morta. Sono stata due volte sul punto di perdere conoscenza. I miei compagni di viaggio erano disperati. Il dottore voleva praticarmi un salasso, ma per fortuna don Balthazar si è opposto. Se avesse lasciato fare a quel novello ‘Sangrado’ sarei sicuramente morta. Mi hanno distesa sul cavallo e sono propensa a credere che una mano invisibile mi abbia sostenuta perchè non sono caduta neanche una volta. Finalmente il sole è scomparso dietro agli alti vulcani e a poco a poco il fresco della sera mi ha rianimata. Per incitarmi ad avere coraggio, don Balthazar è ricorso a uno stratagemma usato in circostanze simili e che consiste nell’ingannare il viaggiatore sulla reale distanza che lo separa dal tambo.

Mi diceva:
“Coraggio, signorina, presto vedrete la luce della lanterna davanti alla porta della locanda.”
Balthazar sapeva benissimo che eravamo a più di sei leghe di distanza, ma, per rendere credibile il suo inganno, faceva affidamento sulla prima stella che sarebbe apparsa sopra alla Cordigliera. Purtroppo, la notte era molto buia e la nostra inquietudine era grande.
Nel deserto non ci sono sentieri tracciati e, senza le stelle a fare da guida, correvamo il rischio di perderci, di morire di fame e di sete nella solitudine di quella vasta distesa. Il dottore si lasciava andare a penose lamentele e don Balthazar, che era di carattere allegro, lo prendeva in giro in modo buffo. Ci siamo affidati all’istinto delle nostre bestie, come fanno anche i mulattieri, che in circostanze simili non hanno altre bussole.

Non ero caduta nel tranello di Don Balthazar, che aveva voluto farmi credere che una stella fosse la luce del tambo, ma sono stata io a vedere per prima la lanterna della locanda. La sua vista mi ha dato una sensazione ineffabile, la stessa provata dal naufrago che sta per soccombere e scorge una nave venire in suo aiuto. Ho levato un grido e ho spinto il cavallo al galoppo.
La distanza era lunga, ma la vista di quella piccola lanterna sosteneva il mio coraggio. Siamo arrivati al tambo a mezzanotte. Don Balthazar era andato avanti con il suo domestico per farmi preparare un letto e un brodo caldo. Appena arrivata mi sono messa a letto, dopo aver preso il brodo, ma non sono riuscita a dormire. Tre cose mi hanno impedito di prendere sonno: le pulci, molto più abbondanti che a Islay, il rumore della locanda e la paura che mi venissero a mancare le forze e che non fossi in grado di continuare il cammino.

Don Balthazar diceva al dottore: “Non credo sia prudente portare con noi la signorina. E’ talmente debole che ho paura che muoia per strada, tanto più che abbiamo davanti a noi la parte più faticosa del viaggio. Sono del parere di lasciarla qui e mandare qualcuno a prenderla domani con una lettiga.” A questo punto, ho sentito il proprietario dell’hotel che diceva di aver esaurito l’acqua di riserva. Avrei potuto morire di sete se non ne fosse arrivata dell’altra! Le sue parole mi hanno fatto rabbrividire di orrore e il pensiero di essere abbandonata nel deserto in mano a persone insensibili che, rese crudeli dalla sete, avrebbero potuto lasciarmi morire, negandomi un bicchiere d’acqua, mi ha rianimata. Qualsiasi cosa fosse successa in viaggio, era meglio morire di fatica che di sete. Spinta dalla forza dell’istinto vitale e dalla paura della morte, alle tre di notte ero pronta a partire.

Faceva molto freddo. Don Balthazar mi aveva prestato un grande poncho rivestito di flanella e avevo avvolto due grandi fazzoletti attorno al corpo. Grazie a queste precauzioni sono riuscita ad andare avanti senza soffrire troppo il freddo.
Il panorama era completamente cambiato, la pampa era finita ed eravamo entrati in un paesaggio montagnoso, anch’esso senza vegetazione, una natura morta nel suo aspetto più desolato. Non si vedevano uccelli né il più piccolo animale sulla terra, c’era solo la sabbia nera e pietrosa.
Il passaggio dell’uomo aveva contribuito ad aumentare l’orrore del luogo e quella terra desolata era cosparsa di scheletri di animali – muli, cavalli, asini, buoi - morti di fame e di sete in quell’orribile deserto. Solo ai lama, che hanno bisogno di molta acqua e di una temperatura fredda, veniva risparmiata la traversata, perché troppo faticosa.

La vista degli scheletri mi aveva profondamente rattristata. Gli animali, legati al nostro stesso pianeta, alla terra su cui viviamo, non sono forse nostri compagni? Non sono anch’essi creature di Dio? Non è per un ripiegamento su me stessa che soffro per le pene dei miei simili, il dolore suscita la mia compassione qualunque sia l’essere che lo patisce e credo che sia un dovere religioso quello di proteggere gli animali che sono sotto il nostro dominio. Ogni volta che i miei occhi si posavano sulle ossa di quelle vittime della cupidigia umana, la mia immaginazione mi rappresentava la crudele agonia dell’essere che aveva animato quello scheletro. Vedevo quei poveri animali sfiniti di fatica e di sete morire in preda alla rabbia e mi tornava in mente la conversazione della notte precedente. Sentendo con terrore quanto ero debole per sostenere la fatica di un’altra dura giornata, fremevo all’idea che anch’io, forse, sarei stata abbandonata nel deserto…


Don Balthazar riteneva che, nello stato in cui ero, non potessi cavalcare senza espormi al pericolo di cadere nel precipizio, perciò mi ha proposto di fare la discesa a piedi. Lui e suo cugino mi hanno preso sottobraccio e, quasi portandomi di peso, mi hanno aiutata a scendere, mentre il dottor Castellac, dietro, guidava gli animali reggendo le redini. Questo modo di procedere funzionava bene, perciò lo abbiamo ripetuto sulle altre sette o otto cime che abbiamo dovuto scalare.

Ma sull’ultima cima ho dovuto sostenere un’altra prova impostami dalla divinità del deserto, la morte. Sul bordo della strada, collocata in modo che non si potesse evitare, c’era una tomba. Don Balthazar voleva farmi passare oltre in fretta, ma la curiosità mi spingeva a leggere l’iscrizione. Era un giovane di ventotto anni, che era andato a fare i bagni di mare a Islay, ne era ripartito ammalato ed era morto in quel luogo mentre tornava ad Arequipa.
Non era riuscito a sopportare la fatica del viaggio e il dolore della madre si era espresso in quella tomba, che completava l’orrore del deserto. Essa sorgeva nel punto esatto dove il giovane era morto e sulla lapide era scritta la sua drammatica fine. Io immaginavo in modo vivo la sua sofferenza nel sentirsi venir meno in questo luogo, lontano dai suoi cari! La mia immaginazione ingigantiva il suo dolore ed ero così profondamente impressionata che per un istante ho avuto timore di morire anch’io in quel posto. È stato un momento orribile! Pensavo a mia figlia, la supplicavo di perdonarmi per essere venuta a cercare la morte qui, a quattromila leghe dal mio paese, e pregavo Dio di prenderla sotto alla sua protezione. Rassegnata a lasciare questa vita e incatenata alla tomba da cui non potevo più muovermi, ho perdonato tutti quelli che mi avevano fatto del male. Ma don Balthazar è venuto ancora una volta in mio aiuto. Mi ha issata sulla mula, mi ha legata alla sella con il poncho, poi, sostenendomi con il suo braccio vigoroso, ha incitato gli animali ad andare più veloci. A fatica, sono riuscita ad arrivare in cima all’ultima vetta, dove i miei compagni mi hanno distesa a terra, dicendomi in tono allegro: “Signorina, aprite gli occhi, guardate com’è bella Arequipa! Ecco il fiume di Congata e i grandi alberi che lo costeggiano. Diteci, in Francia avete una campagna così bella?”


Mi sono addormentata immediatamente e mi sono svegliata verso le cinque del pomeriggio. Ho guardato stupita gli oggetti che mi circondavano. Sulle prime, ho creduto che fosse la continuazione di un sogno. Non potevo credere che ciò che vedevo fosse vero. Mi trovavo in una piccola cappella decorata nello stile comune in Perù e con l’altare sovraccarico di statue di gesso, fra le quali c’erano una Vergine vestita in modo bizzarro e un grande Cristo coperto di gocce di sangue. C’erano anche dei candelabri d’argento, dei vasi di fiori naturali e artificiali e una grande quantità di altri oggetti. Il pavimento era coperto da un tappeto abbastanza bello. Una piccola finestra lasciava penetrare una mezza luce pallida e malinconica.

Indebolita da due giorni di sofferenze e in preda alla febbre, forse ero nello stato d’animo in cui si trovano a volte gli esseri inclini al sonnambulismo, vero è che la vista di quel gatto straordinario mi ha ispirato una paura che non saprei spiegare. Ho voluto tuttavia dominarla, perché il mio carattere coraggioso si indignava nel provarla.
Tirando fuori il braccio da sotto le coperte, ho preso la tazza del latte e l’ho porta all’animale, chiamandolo con voce dolce. Ma lui ha drizzato il pelo e, con un balzo, è saltato sull’altare, come se da lassù volesse gettarsi su di me. Stavo per chiedere aiuto quando sulla porta è apparso un piccolo essere, che mi ha fatto l’effetto di un angelo. “Non abbiate paura – mi ha detto, vedendo il mio spavento – questo gatto non è cattivo, è solo molto selvatico e, quando è impaurito, diventa strano.” Dicendo queste parole, la graziosa piccola creatura si è avvicinata all’altare, ha parlato al gatto, che si è lasciato accarezzare, poi lo ha trascinato verso l’ingresso e lo ha spinto fuori, richiudendo la porta. Non sapevo cosa pensare di questa apparizione. L’enorme gatto con gli occhi rossi mi era sembrato l’incarnazione di Lucifero, la piccola figura davanti a me sembrava un angelo sceso dal cielo.

“Avvicinati – gli ho detto – chi sei? come ti chiami?” La piccola creatura si è inginocchiata sul bordo del letto, mi ha offerto la piccola bocca da baciare e ha fatto scorrere la sua graziosa testa di serafino sul mio braccio perché la accarezzassi. “Il mio nome è Mariano e sono il figlio del signor Najarra.
Da molto tempo stavo fuori della porta ad ascoltare, per sapere quando vi sareste svegliata. Mi sono voltato un attimo e il grosso gatto nero si è infilato dentro. Avevo paura che bevesse il vostro latte, per questo sono entrato. Non siete arrabbiata, vero?” Mariano era un amore di bambino. A cinque anni, aveva un tipo di bellezza rara in un bambino così piccolo, la bellezza d’espressione. Nei suoi grandi occhi neri si leggeva che Dio lo aveva dotato di un’anima sensibile e intelligente. Aveva i capelli ricci, d’un bel nero lucente, il corpo sottile, le braccia e le gambe magre, le mani graziose e i piedi piccoli. Il suono della sua voce commuoveva l’animo e il suo modo di parlare, ancora infantile, dava una grazia particolare a quello che diceva.

L’ho pregato di andare a cercare sua madre, che è giunta poco dopo insieme al dottore. Ella aveva in mano una lettera del vescovo di Arequipa. Il mio illustre parente diceva che il fratello mi sarebbe venuto incontro per darmi tutto l’aiuto necessario. La sera, la signora Najarra mi ha offerto un pasto raffinato, con porcellane meravigliose, cristalli preziosi, biancheria damascata, argenteria lavorata e, cosa rara, coltelleria inglese. Il servizio è stato accurato quanto avrebbe potuto esserlo in un grande hotel di una capitale europea.
Mi sono alzata verso le sei.
Avevo il corpo contuso e i piedi gonfi, tuttavia ho voluto fare una passeggiata nel boschetto del signor Najarra. Dopo due giorni passati nel deserto, provavo un grande piacere a ritrovarmi in un campo coltivato, ad ascoltare il mormorio di un ruscello, a vedere gli alberi alti e maestosi! L’aspetto della valle mi affascinava. Mentre parlavo di agricoltura con il signor Najarra, un negro è venuto ad annunciarci la visita del signor don Juan de Goyeneche. Era la prima persona della mia famiglia a cui stringevo la mano. Mi è piaciuto abbastanza, il suo tono era di estrema gentilezza e dolcezza. Mi ha detto, anche a nome del fratello, di considerare mia la loro casa. Quando è ripartito, mi sono ritirata nella mia cappella e mi sono coricata con un godimento indicibile.

La mattina dopo mi sentivo completamente ristabilita. Ho fatto il bagno, restando immersa nella tinozza per mezz’ora, poi mi sono infilata di nuovo fra le lenzuola di batista e ho consumato un ottimo pranzo. Quando mi sono alzata, ho fatto una toeletta accurata perché sapevo che avrei ricevuto numerose visite. Verso mezzogiorno, il dottor Castellac è venuto a dirmi che c’erano quattro cavalieri, venuti da Arequipa, che chiedevano di me.
Uscendo dalla cappella, situata in fondo alla galleria che circonda la casa, ho visto venire verso di me un uomo di diciotto o diciannove anni, che mi somigliava talmente da sembrare mio fratello. Era mio cugino Emmanuel de Rivero. Parlava francese come se fosse nato in Francia, infatti vi era stato mandato all’età di sette anni ed era tornato solo da un anno. Abbiamo provato subito una grande simpatia reciproca. “Cugina, com’è possibile che fossi all’oscuro della vostra esistenza? Sono rimasto a Parigi quattro anni, solo, senza un amico e voi eravate là. Dio non ha permesso che ci incontrassimo!” Poi mi ha dato una lettera di mia cugina, dona Carmen Pierola de Florez, che rappresentava lo zio Pio e che mi invitava a stare da lei.
Mi mandava anche un bel cavallo, con una magnifica sella inglese, due costumi da amazzone, un paio di scarpe, un paio di guanti e una quantità di altri oggetti. Mio cugino mi ha detto inoltre che la notizia del mio arrivo teneva occupati gli abitanti della città, che pensavano che fossi venuta a reclamare l’eredità di mio padre.

I nostri ospiti hanno insistito perché consumassi un ultimo pasto con loro e, anche se mia cugina ci attendeva, siamo rimasti. Ho lasciato la fattoria verso le sei di sera, con indosso un grazioso costume da amazzone in tessuto verde e un cappello da uomo con un velo nero, in groppa a un bel cavallo vivace e focoso. Marciavo in testa al gruppo e il dottore chiudeva la piccola comitiva.
La strada fra Congata e Arequipa è buona, se paragonata ad altre del paese, tuttavia presenta alcuni ostacoli. C’è un fiume da attraversare a guado. Quando siamo passati noi c’era poca acqua, ma i cavalli scivolavano sulle pietre del fondo e una loro caduta avrebbe potuto avere conseguenze funeste. Facevo fatica a controllare il mio impaziente destriero, ma Emmanuel mi faceva da scudiero e, grazie a lui, sono arrivata sana e salva.

Cinque leghe separano Congata da Arequipa e faceva notte quando siamo entrati in città. Ero contenta che il buio mi sottraesse agli sguardi degli abitanti, anche se il rumore degli zoccoli attirava i curiosi sulla porta.