
Mi trovavo dunque nella casa dove era nato mio padre, dove i miei sogni d’infanzia mi avevano spesso trasportata! Il presentimento che un giorno l’avrei vista si era radicato nel mio animo e non l’aveva più abbandonato, un presentimento legato alla venerazione che avevo per lui e che ne ha conservata viva l’immagine nel mio pensiero.

La seconda stanza era separata da un tramezzo che non arrivava fino al soffitto, era più piccola e prendeva luce dalla prima. Il suo mobilio consisteva in un piccolo letto in ferro ornato di tende di mussola bianca, un tavolo di quercia, quattro vecchie sedie e un antico tappeto Gobelins.
Per la forma, l’atmosfera e l’oscurità, la stanza assomigliava a un sotterraneo. La vista dell’alloggio che la mia famiglia mi aveva assegnato aveva fatto scendere una profonda tristezza nel mio animo e nella mia mente si era affacciata l’idea della temuta avarizia dello zio. Si può giudicare il padrone di casa dal modo di agire di coloro che lo rappresentano e se dona Carmen mi aveva riservato quella spelonca è perché era sicura che se lui fosse stato presente avrebbe fatto lo stesso. Per non lasciarmi dubbi al riguardo, mentre mi accompagnava, mi ha detto che quell’appartamento, benché poco adatto, era l’unico disponibile per ricevere i parenti e gli amici. Quel tratto dipingeva lo zio. Capo di una numerosa famiglia, in relazione, grazie ai suoi alti incarichi e ai suoi meriti personali, con la parte più distinta del paese, don Pio disponeva di una fortuna colossale, ma non poteva offrire ai suoi parenti e amici che una fredda cantina, nella quale c’era bisogno di accendere la luce anche a mezzogiorno per poter leggere. Queste riflessioni mi hanno agitata a tal punto che mi sono addormentata solo quando era quasi giorno.


A Islay avevo dovuto restare al ballo fino a mezzanotte, anche se ero sfinita, ad Arequipa, malgrado le sofferenze del viaggio e il dolore che sentivo per la morte della nonna, dovevo ricevere tutta la città il terzo giorno dopo il mio arrivo. 

Mi hanno confezionato in fretta e furia un abito nero e mi sono presentata nel vasto salone vestita a lutto, come tutta la famiglia. La tristezza del mio animo superava quella dei vestiti. In Perù, c’è l’usanza che le donne di alta classe, quando arrivano in una città dove sono straniere, restino in casa un mese a ricevere le visite. Trascorso questo tempo, esse escono per restituirle. Mia cugina Carmen rispetta rigorosamente l’etichetta e, pensando che anch’io vi attribuissi la stessa importanza, mi ha istruita con cura, affinché mi conformassi. Ma in questa circostanza, il giogo del costume mi pareva troppo pesante e ho deciso di affrancarmi. E poiché neanche mia cugina amava ricevere visite, ha plaudito alla rapidità con cui me ne sono liberata. Lei non ne sarebbe stata capace.
L’indomani del mio arrivo ad Arequipa ho scritto allo zio che mi trovavo a casa sua, che la mia salute non mi permetteva di andarlo a trovare a Camana e che aspettavo il suo ritorno con la più viva impazienza. Passati quindici giorni senza avere risposta, cominciavo ad essere preoccupata. Lo era anche mia cugina, che temeva che quel silenzio significasse disapprovazione della sua condotta nei miei riguardi. Il modo d’agire dello zio rinnovava l’agitazione che il mio arrivo aveva prodotto fra i suoi amici e nemici: gli uni dicevano che aveva paura di me, gli altri pensavano che preparasse qualcuno dei suoi tiri per incastrarmi. Gli allarmisti arrivavano a dire che avrebbe persino potuto farmi arrestare.

Ero talmente occupata a fare e ricevere visite, a scrivere, a vedere tutte le cose interessanti del paese, che il mio tempo passava rapidamente. Arrivata ad Arequipa il 13 settembre, il 18 dello stesso mese ho sentito, per la prima volta in vita mia, un terremoto. Era quello passato alla storia per i suoi disastri, che ha raso al suolo Tacna e Arica.
La prima scossa ha avuto luogo verso le sei del mattino ed è durata due minuti. Sono stata svegliata di soprassalto e quasi gettata giù dal letto.
Credevo di essere ancora sulla nave sballottata dalle onde e non avevo per nulla paura, ma la mia serva negra si è alzata di colpo gridando: “Senora! temblor! temblor!” Poi ha aperto la porta, è uscita in cortile e io mi sono lanciata di corsa dietro di lei con la vestaglia sulle spalle. I movimenti erano così violenti che eravamo obbligate a gettarci a terra per non cadere. Anche la persona più coraggiosa sarebbe stato assalita dallo spavento a sentire il suolo agitarsi così e a vedere le case oscillare. Tutti gli schiavi erano nel cortile, in ginocchio, a pregare, impietriti dal terrore e rassegnati a morire.

Sono tornata a letto e mia cugina mi ha seguita poco dopo. La paura aveva alterato i suoi lineamenti. “Ah, Florita, che terribile terremoto! Sono sicura che una parte della città è distrutta. Un giorno mi succederà di restare sepolta sotto le rovine della mia vecchia stamberga. Voi che non siete abituata a simili convulsioni, che effetto avete provato?”
“Cara cugina, ho creduto di essere ancora sulla nave. È così che si sentono i movimenti delle onde. Ho avuto paura solo quando, in cortile, ho visto le case inclinarsi verso di me, il selciato che si muoveva e il cielo che vacillava, come quando si è in mare. Allora ho capito lo spavento da cui è colto l’uomo in presenza di un cataclisma che gli fa sentire fino in fondo la sua impotenza. Sono frequenti questi terremoti?
“Certe volte ce ne sono tre o quattro in un giorno ed è raro che passi una settimana senza che ne abbiamo uno più o meno forte. È a causa della vicinanza con il vulcano.”
Seduta sul mio letto a fumare cigaritos , donna Carmen è rimasta a parlare con me delle innumerevoli disgrazie che i terremoti hanno causato al paese.

“Cugina, se per voi è così orribile, perché ci rimanete?”
“Per la più dura delle leggi, Florita, quella della necessità. Chi non possiede una fortuna dipende dagli altri, è schiavo, e deve vivere dove il padrone lo lega.” Dicendo questo, ha digrignato i denti con un gesto di rivolta. Questo provava che non era fatta per essere schiava.
Mentre la guardavo con un sentimento di superiorità che non riuscivo a reprimere, le ho detto: “Cugina, io possiedo ancora meno ricchezze di voi, eppure ho voluto venire ad Arequipa ed eccomi qui!” “Che cosa volete darmi a intendere?” mi ha domandato con un’espressione di gelosia. “Che non esiste libertà senza volontà. Chi ha ricevuto da Dio una volontà forte, che gli permette di superare gli ostacoli, è libero. Chi ha una volontà debole si scoraggia, cede davanti alle avversità, è schiavo e lo sarebbe anche se la fortuna bizzarra lo mettesse su un trono.”

“Mia cara Florita, voi sostenete che basta avere una volontà ferma per essere liberi, proprio voi, donna vile, schiava delle leggi, dei pregiudizi, soggetta a mille infermità e di una debolezza fisica che vi rende incapace di lottare contro il minimo ostacolo, voi avete il coraggio di enunciare un simile paradosso. Ah, Florita! Come si vede che non siete stata sottomessa al giogo umiliante di un marito duro e tirannico; obbligata a piegarvi alla sua volontà capricciosa, a sopportare la sua ingiustizia, il suo disprezzo e le sue offese; che non siete stata dominata da una famiglia altezzosa né esposta alla spietata cattiveria degli uomini. Signorina senza famiglia, siete stata libera in tutte le vostre azioni e padrona assoluta di voi stessa. Eravate senza obblighi verso il mondo e la sua calunnia non poteva toccarvi. Florita, vi sono ben poche donne nella vostra felice posizione. Quasi tutte, dopo essere andate spose molto giovani, hanno avuto le loro facoltà sciupate, alterate dall’oppressione più o meno forte che i loro padroni hanno fatto pesare su di loro. Non sapete quanto le sofferenze, nascoste agli occhi del mondo e dissimulate persino con se stesse,
indeboliscono la propria interiorità e paralizzano il morale anche dell’essere più dotato. Questi sono gli effetti che le sofferenze producono su noi donne appartenenti a una civiltà poco progredita. Per le donne europee le cose vanno diversamente?”

“C’è sofferenza dove c’è oppressione e oppressione dove c’è il potere di esercitarla. In Europa, come qui, le donne sono asservite agli uomini e soffrono ancora di più per la loro tirannia. Ma in Europa, più di qui, si incontra un maggior numero di donne alle quali Dio ha elargito forze morali sufficienti per sottrarsi al giogo.”
Dicendo queste parole ero trasportata dal sentimento che le ispirava e mia cugina è rimasta sorpresa dalla vivacità della mia voce e dall’espressione dei miei occhi.
“Florita, vi ammiro, siete splendida! Non ho mai visto una creatura che esprimesse i propri sentimenti con altrettanto calore. Siete un angelo ad accalorarvi per le sorti delle donne. Infatti, esse sono ben sfortunate. Tuttavia, cara amica, il vostro giudizio è incompleto. Per avere un’idea giusta dell’abisso di dolore in cui è costretta a vivere la donna, bisogna essere sposati o esserlo stati. Florita, il matrimonio è il solo inferno che io riconosca.”


Il 24 settembre, per la festa della Madonna, la città è stata attraversata da una grande processione, di quelle in cui il clero del paese dispiega la più grande ostentazione. Queste processioni sono il solo divertimento del popolo. Le feste della chiesa peruviana danno un’idea di quello che dovevano essere i Baccanali e i Saturnali dei pagani. Anche nei tempi in cui c’era una profonda ignoranza, la religione cattolica non metteva in mostra delle buffonate così indecenti, delle parate così scandalosamente sacrileghe.
In testa alla processione sfilavano le bande dei musicisti e dei cantori, tutti mascherati. I negri e i sambo guadagnavano un reale per il ruolo sostenuto in questa farsa religiosa.
La chiesa li vestiva in modo ridicolo, abbigliandoli da pierrot, da arlecchini, da citrulli e da altri personaggi simili e dava loro delle brutte maschere colorate per coprirsi il viso. Quaranta o cinquanta danzatori facevano gesti e contorsioni di una cinica impudenza, molestavano le negre e le ragazze di colore, indirizzando loro ogni sorta di proposte oscene. Queste ultime, mischiandosi ai danzatori, cercavano di riconoscere le persone nascoste dietro alle maschere. Io distoglievo lo sguardo con disgusto da quella calca grottesca, da cui provenivano urla e risa convulse. Dietro ai danzatori veniva la Vergine vestita in modo sfarzoso, con il vestito di velluto decorato di perle e con dei diamanti sulla testa, al collo e alle dita. Era portata da venti o trenta negri e seguita dal vescovo con tutto il clero. Venivano poi i monaci di tutti i conventi, riuniti per marciare insieme nella santa processione. Le autorità chiudevano il corteo ufficiale e la massa del popolo ridente, vociante e tutt’altro che in preghiera seguiva in disordine.

Queste feste grandiose fanno la felicità degli abitanti del Perù e temo che non si riuscirà mai, neanche fra molto tempo, a rendere più spirituale il loro culto.



Ho avuto l’impressione che la gloria di questa grande vittoria fosse dovuta più alle ancelle della santa
Vergine che ai soldati di suo figlio. Comunque sia, la Vergine sembra estasiata da questa grande conversione di massa, fa molte gentilezze al sultano e all’imperatore, nomina il primo patriarca di Costantinopoli e il secondo arciprete di Mauritania, lasciando loro il potere temporale. L’uno e l’altro giurano su un crocifisso portato su un piatto d’argento, di garantire al clero cattolico la decima nei loro vasti domini e l’obolo di San Pietro al papa di Roma. A un segno della Vergine il coro delle fanciulle intona inni e cantici, a cui rispondono, a squarciagola, le voci roboanti dei soldati turchi, cristiani e saraceni. Poi ci si mette a malmenare gli Ebrei, che si trovano in gran numero nell’armata musulmana, dove sono accorsi da tutte le parti per comprare le spoglie dei Cristiani. Poiché gli Ebrei non si vogliono convertire, i Cristiani e i nuovi convertiti li picchiano, prendono loro i soldi e i vestiti dandogli in cambio di stracci. Queste scene grottesche sono coperte da applausi. Poi, ricominciano i cantici, nel corso dei quali l’Imperatore e il Sultano vengono spogliati delle loro empie vesti e rivestiti in gran pompa dalla Vergine degli abiti sacerdotali della loro nuova carica. Quindi arriva Gesù Cristo insieme a San Matteo, si ferma davanti alla madre e benedice i due eserciti ormai fusi in uno solo. Infine si apparecchia la tavola alla quale siedono, in ordine gerarchico, Gesù Cristo, la santa Vergine, san Giuseppe, san Matteo, i generali cristiani, l’imperatore dei Saraceni e il Sultano.


Il popolo, ebbro, batte le mani, fa salti di gioia e grida con tutte le sue forze: “Viva Gesù Cristo! viva la santa Vergine! viva nostro signore don José! viva nostro signorissimo il papa! Viva! viva! viva!”.
È con questi mezzi che i pregiudizi dei popoli dell’America del Sud sono tenuti in vita. Il clero ha aiutato la rivoluzione, ma ha conservato il potere e lo conserverà ancora a lungo.

L’origine della città è avvolta nella leggenda. In una cronaca delle tradizioni indiane conservata a Cuzco, si legge che, verso il XII secolo della nostra era, Maita Capac, il sovrano della città del sole, fu detronizzato. Egli si sottrasse ai nemici attraverso la fuga, andò vagando per le foreste e sulle cime nevose delle montagne, insieme a qualche compagno. Il quarto giorno, sfinito dalla stanchezza e ridotto in fin di vita dalla fame e dalla sete, si fermò ai piedi del vulcano. All’improvviso, cedendo a un’ispirazione divina, Maita piantò in terra la sua lancia, gridando: “Arequipa!”, parola che, in quechua, significa ‘Mi fermo qui’. Quando si girò verso i compagni, vide che solo in cinque l’avevano seguito, ma l’Inca aveva ormai fede soltanto nella voce di Dio e persistette nella sua decisione. Gli uomini costruirono le loro abitazioni intorno alla lancia, sul fianco del vulcano circondato da ogni parte dal deserto. Come altri conquistatori e fondatori di imperi, anche Maita era stato solo il cieco strumento dei segreti disegni della Provvidenza. Molte città progredite devono la loro grandezza ai propri meriti, ma anche a cause fortuite, che non sembrano avere spiegazioni razionali.

La città occupa una vasta area della vallata e, vista dalle alture di Tiavalla, sembra occuparne una ancora più grande. Di lassù, si ha l’impressione che solo una striscia sottile di terra la separi dai piedi delle montagne. La massa di case bianche, la moltitudine di cupole che brillano al sole nel verde della valle e nel grigio delle montagne, producono un effetto impensabile. Il viaggiatore che contempla per la prima volta Arequipa da Tiavalla è portato a immaginare che vi si nascondano degli esseri di una specie diversa che conducono un’esistenza misteriosa, sotto la protezione del gigantesco vulcano incapace di far loro del male.

Il vulcano non ha nome. Si trova a 12.000 piedi sul livello del mare e le due montagne più vicine, che si trovano tuttavia a una certa distanza, una per parte, appaiono enormi. Una si chiama Pichain Pichu e l’altra Chachaur e sono entrambe vulcani spenti.
Quando Pizarro scoprì Arequipa, la fece diventare una delle sedi del governo e vi stabilì anche una sede vescovile. In epoche diverse, i terremoti sono stati causa di disastri spaventosi. Quelli del 1582 e del 1600 distrussero quasi completamente la città e quelli del 1687 e del 1785 non furono da meno.



Sotto questo aspetto, la chiesa dei Gesuiti è un’eccezione, perché in essa i fedeli possono pregare davanti a immagini più decorose dei santi. Prima dell’indipendenza, le chiese erano riccamente addobbate con candelabri, balaustre, pale d’altare d’argento e ornamenti d’oro, metalli usati con più esagerazione che buon gusto, oggetti preziosi che, forse, la fede non riuscirà più a proteggere. Alcuni presidenti e capi di partiti politici, in lotta fra loro, dopo aver svuotato le casse dello stato, non si farebbero scrupolo di spogliare le chiese dei loro tesori e di farli fondere per dare la paga ai soldati e soddisfare i vizi dei generali. Finora, i preziosi addobbi sono stati risparmiati, ma in futuro potrebbero subire questa sorte. Durante la recente guerra fra Orbegoso e Bermudez correva voce che le statue della Vergine sarebbero state derubate dei loro gioielli.
Arequipa ha un ospedale, un manicomio e un orfanotrofio e i tre edifici sono abbastanza mal tenuti. Ho visitato l’ospizio dei trovatelli e quello che ho visto non mi ha certo rallegrata. È penoso vedere quelle povere creaturine nude, magre, in uno stato deplorevole. Ci si considera soddisfatti se, per assolvere gli obblighi di carità, si dà a quei bambini quel tanto che basta a farli sopravvivere miseramente. Inoltre, essi non ricevono alcuna educazione né istruzione, non imparano un mestiere e, a causa di questa criminale negligenza, quelli che sopravvivono sono costretti a mendicare. Mi ha colpita il modo ingegnoso in cui queste vittime vengono accolte al brefotrofio. Esse vengono lasciate dentro a una scatola a forma di culla, aperta verso l’esterno in modo che la sfortunata madre possa abbandonare il bambino senza essere vista dall’interno e senza l’obbligo di rivelare la propria identità.



Solo un palato completamente insensibile potrebbe sopportarli. Di solito si beve acqua. La cena è alle otto e consiste nello stesso tipo di portate del pranzo.



La chiesa peruviana sfrutta questo gusto popolare per aumentare la sua influenza sul popolo e, oltre alle grandi processioni per sottolineare le festività solenni, tutti i mesi vi sono spettacoli in strada.
Una volta sono i Francescani che vanno di sera a fare una colletta per i defunti, una volta sono i Domenicani che sfilano in onore della Vergine, una volta c’è la processione per il Bambino Gesù, una volta c’è quella per tutti i santi, non si finisce mai. Ho già descritto un corteo religioso, perciò non annoierò il lettore parlando di altri. Le processioni per i santi sono meno imponenti, ma ugualmente grottesche e le indecenti buffonate che divertono il popolo sono altrettanto scandalose. Hanno tutte una cosa in comune: i bravi monaci chiedono sempre soldi e il popolo glieli dà.

È durante la Settimana Santa che hanno luogo le feste più selvagge del cattolicesimo peruviano. In tutte le chiese di Arequipa si costruiscono dei mucchi di terra e di pietre, che simboleggiano il Calvario, e vi si piantano dei rami di ulivo. Su di essi il Venerdì Santo si rappresenta la Passione di Nostro Signore: il suo arresto, la flagellazione e la crocifissione, con l’accompagnamento di canti. Al momento della morte del Cristo, le candele vengono spente e regna il buio. Si può facilmente immaginare quello che succede negli angoli della chiesa affollata, data l’immoralità della popolazione…Ma Dio misericordioso ha dato ai monaci, suoi ministri, la facoltà di concedere l’assoluzione.

La sera, gli abitanti si riversano in strada e, recitando preghiere, raggiungono le chiese dove partecipano alla via crucis. I più devoti si gettano in ginocchio e baciano il suolo. Alcuni si percuotono il petto o si coprono il capo di stracci, altri camminano a piedi nudi reggendo sul dorso la croce, altri ancora barcollano sotto il peso di lastre di pietra. In ogni casa, lo zelo superstizioso spinge i fanatici a follie assurde. In cerca di guida, essi si rivolgono al soprannaturale, non alla propria coscienza.
Alla messa della domenica gli uomini restano in piedi a parlare e a ridere fra di loro e fissano le donne graziose inginocchiate davanti a loro, in parte nascoste dalle mantiglie. Le donne non hanno il libro di preghiere e si distraggono facilmente dal servizio.
A volte esaminano quello che indossa la vicina o parlano con la serva negra seduta dietro di loro, a volte si sdraiano sul tappeto e dormono o fanno conversazione.

I monaci che celebrano la messa hanno un aspetto trasandato e gli Indiani che li aiutano sono scalzi e mezzi nudi. Due violini e una specie di zampogna suonano insieme all’organo in modo discordante. La musica è orribile e il canto è così stonato, che è impossibile assistervi per un quarto d’ora senza sentirsi irritati per il resto del giorno. Non è come in Europa, dove l’arte dà lustro alla sterilità del rito. In Perù la chiesa è solo un luogo dove le persone si incontrano.
Il grado di civiltà raggiunto da un popolo si riflette in ogni cosa. Ad Arequipa i divertimenti del carnevale non sono meno indecenti delle buffonate farsesche della Settimana Santa. Vi sono persone che si guadagnano da vivere tutto l’anno svuotando i gusci delle uova e riempiendoli di colore rosa, blu, verde, rosso e richiudendo l’apertura con la cera. Le signore si vestono di bianco, poi mettono alcune uova nel paniere, si siedono sul tetto di casa e le lanciano sui passanti. Questi ultimi, a piedi o a cavallo, sono armati degli stessi proiettili, che rilanciano verso le donne.
Per rendere il gioco più divertente, le uova possono essere riempite di inchiostro, di miele, di olio e di altre cose disgustose. Mi sono state indicate due o tre persone che hanno perso un occhio in questo tipo di battaglia, ma, malgrado il loro esempio, gli Arequipegni continuano ad avere un entusiasmo appassionato per questo sport. Le signore mettono in mostra le numerose macchie sui loro vestiti e sono orgogliose di queste strane manifestazioni di galanteria. Anche gli schiavi partecipano al divertimento, tirando della farina, che è meno costosa. La sera vanno tutti nelle sale da ballo, dove si eseguono delle danze indecenti. Molte persone indossano dei costumi bizzarri, che hanno poco di caratteristico e i divertimenti vanno avanti per una settimana.

La popolazione di Arequipa e dei suoi sobborghi è fra i trenta e i quarantamila abitanti. Un quarto di essi sono bianchi, un quarto negri e meticci, una metà indiani. In Perù, come in tutto il Sud America, l’origine europea è considerata un titolo di nobiltà e, nel linguaggio degli aristocratici, i bianchi sono quelli che non hanno ascendenti negri o indiani. Ho visto alcune signore che passavano per bianche, pur avendo la pelle color panpepato, perché il padre era nato in Andalusia o a Valencia?. In questo modo le classi sociali sono formate da tre razze distinte: Europei, Indiani, Negri. Fra gli appartenenti a quest’ultima classe, definiti ‘persone di colore’, sono compresi i meticci e gli schiavi, qualunque sia la loro razza, resi uguali dalla perdita della libertà.
Negli ultimi quattro o cinque anni, gli usi e i costumi del Perù sono molto cambiati. Oggi si sente enormemente l’influenza di Parigi, che solo un gruppo ristretto di famiglie ricche e antiche rifiuta di accettare. I loro membri somigliano a vecchi alberi rinsecchiti che sopravvivono per dimostrare, come le celle dell’Inquisizione, quanto sia progredito il resto della società.
Le abitudini delle classi più elevate non sono diverse da quelle europee e gli uomini e le donne vestono allo stesso modo degli Europei.

Le donne seguono la moda fin nei minimi dettagli, anche se vanno a capo scoperto. Solo quando vanno in chiesa recuperano la severità del costume spagnolo tradizionale, compresa la mantiglia. I balli francesi stanno rimpiazzando il fandango, il bolero e le danze dei nativi, condannate dalla decenza. Nei salotti si cantano le nostre opere e la gente ha cominciato a leggere i romanzi. Fra poco, nessuno andrà più a messa se non vi si ascolterà della buona musica. Nel tempo libero, si passa il tempo a fumare, a leggere i giornali e a giocare a faraone. Gli uomini si rovinano con il gioco, le donne con l’acquisto di abiti.
In genere, gli Arequipegni hanno un ingegno vivace, una grande facilità di espressione, una buona memoria, un carattere allegro e delle maniere nobili. Prendono la vita come viene e sono nati per gli intrighi. Le donne di Arequipa mi hanno colpita per il loro modo di essere superiori agli uomini. Non sono graziose come le loro sorelle di Lima, hanno modi di vita diversi e un altro carattere, ma il loro atteggiamento orgoglioso e pieno di dignità è straordinario.
A prima vista potrebbero sembrare fredde, ma quando le si conosce meglio, i loro sentimenti delicati e la loro mente sottile toccano l’animo. A differenza delle signore di Lima, obbligate dalla passione per gli intrighi e i divertimenti a passare il tempo fuori, esse stanno tranquillamente in casa e si tengono occupate. Confezionano i propri vestiti con una perfezione che sorprenderebbe le nostre sarte francesi. Ballano con grazia e decoro, amano la musica e spesso cantano come delle professioniste. Ne conosco quattro o cinque le cui voci fresche e melodiose sarebbero ammirate nei salotti parigini.

Il clima di Arequipa non è salubre. Il mal di testa, la dissenteria, i disturbi nervosi e, soprattutto, i raffreddori sono molto comuni.
Gli abitanti hanno la fissazione delle malattie, che sono una buona scusa per viaggiare di continuo. La causa della loro voglia di muoversi è la fervida immaginazione unita alla mancanza di istruzione. Solo un cambiamento d’ambiente può arricchire la loro mente, dare nuove idee ed emozioni fresche.
Le donne in particolare vanno e vengono dai villaggi della costa - Islay, Camana, Arica - dove fanno i bagni di mare alle sorgenti di acqua termale, alcune delle quali, famose per le proprietà curative, si trovano anche nei pressi di Arequipa. Quella di Ura, le cui acque sono verdi e caldissime, è particolarmente apprezzata. Non vi è nulla di più sporco e scomodo di queste cittadine balneari, dove la buona società va a fare i bagni, eppure sono molto frequentate e la gente spende volentieri un sacco di soldi per stare tre settimane o un mese in una di esse.

Le donne di Arequipa afferrano al volo ogni occasione per viaggiare, non importa se a Cuzco o a Lima, in Bolivia o in Cile e nessuna somma né fatica le scoraggia. Sono incline ad attribuire la preferenza delle giovani donne verso gli stranieri al gusto per i viaggi. Sposando uno straniero, esse sperano di realizzare il sogno lungamente accarezzato di visitare il paese dove è nato – Francia, Italia o Inghilterra – e questa prospettiva conferisce alle unioni un fascino che forse non avrebbero altrimenti. L’idea di viaggiare rende la lingua francese molto in voga tra le donne e molte la imparano nella speranza di averne un giorno bisogno. Nel frattempo, esse traggono grande piacere dalla lettura di alcuni dei nostri buoni libri e sviluppano la loro intelligenza, compensando la monotonia della vita che il paese offre. Anche gli uomini istruiti conoscono bene il francese.

I poveri sono sepolti in una fossa comune, che viene chiusa nello stesso modo quando si riempie. I Protestanti non sono autorizzati a essere sepolti qui. È solo da qualche anno che i morti non vengono più seppelliti nelle chiese e alcuni lo rimpiangono e comprano a caro prezzo un posto in una delle chiese dei conventi. Per questo la tomba di mia nonna si trova a Santo Domingo. In questo paese, con i soldi si è facilmente dispensati dagli obblighi della legge e della religione, anche se questi ultimi sono meno cari.

Non vi sono carrozze ad Arequipa. Un tempo, le persone importanti si facevano condurre sulla portantina. A casa di mio zio ce n’è una, che era usata dalla nonna e che mio zio utilizza ancora quando non si sente bene. Somiglia a quelle che si usavano in Francia prima della Rivoluzione.
Tutti si spostano a cavallo o sui muli e usano gli asini per portare carichi in montagna, dove gli Indiani impiegano i lama.

Il lama è la bestia da soma della Cordigliera e gli Indiani lo usano per gli scambi commerciali con le vallate. Questo grazioso animale è un interessante oggetto di studio. Di tutte le bestie che hanno avuto a che fare con l’uomo, è la sola che sia stata capace di non umiliarsi. Il lama non permette di essere battuto o maltrattato e si rende utile solo a condizione che gli venga chiesto, non ordinato.
I lama si muovono in branchi, preceduti a distanza dagli Indiani che li guidano. Se si sentono stanchi, si fermano, e così fa l’uomo. Se la sosta è prolungata, l’Indiano, ansioso perché il sole tramonta, decide di implorare gli animali di andare avanti. Si va a mettere a cinquanta o sessanta passi di distanza, adotta una atteggiamento umile, protende le mani verso di essi in un gesto affettuoso e li guarda con tenerezza, mentre, con una pazienza che non mi stanco di ammirare e con la voce più dolce che si possa immaginare sussurra: “Ic, ic, ic, ic, ic…”. Se i lama sono disposti a rimettersi in viaggio, seguono mansueti e di buon passo l’Indiano, coprendo velocemente il percorso grazie alle loro lunghe gambe.
Ma se sono di cattivo umore, non girano neanche la testa in direzione della voce che li chiama con affetto e pazienza. Restano immobili, l’uno accanto all’altro, in piedi o sdraiati e guardano il cielo con tenerezza e tristezza, tanto da far credere che siano coscienti dell’esistenza di un’altra vita, migliore di questa. Il lungo collo maestoso, il mantello lucente come seta, i movimenti timidi e flessuosi, danno loro un aspetto nobile e delicato che impone rispetto. Per questo i lama sono i soli animali al servizio dell’uomo che egli non osa colpire. Se qualche rara volta un Indiano arrabbiato cerca di ottenere con la forza quello che il lama non vuole concedere liberamente, l’animale alza il capo con dignità e, senza cercare di fuggire - il lama non è mai impastoiato o legato - si sdraia per terra e volge lo sguardo al cielo. Dai suoi begli occhi scorrono grosse lacrime, dal suo petto escono dei sospiri e, nello spazio di mezz’ora, al massimo tre quarti d’ora, muore. Fortunate creature che accettano la vita solo a patto che sia serena!

I lama sono molto importanti perché sono il solo mezzo di comunicazione con gli Indiani delle montagne. Tuttavia, si è tentati di credere che la superstiziosa reverenza di cui sono oggetto non sia dovuta solo alla loro utilità. A volte ne ho visti venti o trenta bloccare una delle strade più trafficate della città. I passanti davano loro una timida occhiata, poi tornavano da dove erano venuti senza protestare. Un giorno, un gruppo di una ventina di questi animali è entrato nel nostro cortile e vi è rimasto per sei ore. L’Indiano che li guidava era disperato e i nostri schiavi non potevano svolgere il loro lavoro, ma tutti sopportavano il disagio e non si sognavano di lanciare uno sguardo adirato nella loro direzione. Persino i bambini, che non hanno rispetto per nulla, non osano toccare i lama.

Un Indiano mi ha detto di averne posseduto uno che aveva trentaquattro anni. Solo gli Indiani della Cordigliera hanno abbastanza pazienza e dolcezza con loro da riuscire a farli lavorare. Non c’è dubbio che, da questo compagno straordinario che la Provvidenza gli ha dato, l’indigeno peruviano ha imparato a morire quando gli si chiede di fare quello che non è disposto a fare. La forza morale che permette di sottrarsi all’oppressione attraverso la morte, così rara nella nostra specie, è molto comune fra gli Indiani del Perù, come avrò ancora occasione di dire.

Lo zio sembrava preoccupato dalla mia risposta e quello che ha detto mi ha lasciata impietrita per lo stupore e la delusione.
“Florita – ha affermato – quando si tratta di affari, io conosco solo la legge e metto da parte ogni altra considerazione. Voi mi domandate giustizia. Saranno gli atti che mi avete portato a determinarne la misura. Mi avete mostrato un estratto di battesimo, dal quale risulta che siete figlia legittima, ma non mi presentate l’atto di matrimonio di vostra madre.
L’estratto di stato civile stabilisce che voi siete stata registrata come figlia naturale e questo titolo vi dà diritto a un quinto della successione di vostro padre. Per questo vi ho inviato il conteggio dei beni che egli ha lasciato e che io ero incaricato di amministrare. Avete visto che sono bastati appena a pagare i debiti che egli aveva lasciato in Spagna, molto tempo prima che andasse in Francia. Quanto alla successione di nostra madre, voi sapete, Florita, che i figli naturali non hanno alcun diritto sui beni degli ascendenti del padre e della madre. Così, io non vi devo nulla fino a quando non produrrete un atto legalmente valido che certifichi il matrimonio fra mio fratello e vostra madre.”


“Zio –gli ho chiesto – siete convinto che io sia la figlia di vostro fratello?”.
“Senza dubbio, Florita. In voi si ritrovano i suoi tratti ed è impossibile dubitarne.”
“Voi credete in Dio, ogni mattina cantate le sue lodi e praticate con assiduità i riti religiosi. Credete che Dio possa consentire di abbandonare la figlia del fratello, di disconoscerla, di trattarla come un’estranea? Non pensate di infrangere la legge divina, la cui impronta è in tutti noi, rifiutando di restituire alla figlia l’eredità del padre? No, zio, ne sono convinta, voi non sarete sordo alla voce del cuore, non mentirete alla vostra coscienza, non rinnegherete Dio.”

“Zio, il matrimonio di mio padre e mia madre è un fatto noto ed è stato sciolto solo dalla morte. Celebrato da un prete, come sapete, non è stato seguito, ne convengo, delle formalità prescritte dalle leggi umane, sono stata io la prima a dirlo. Ma sapreste, in buona fede, farvi forte dell’omissione di queste formalità per appropriarvi del pane dell’orfano? Pensate che mi sarebbero mancati i mezzi per supplire a queste formalità mancanti, se avessi avuto motivo di dubitare della vostra giustizia?
Credete che mi sarebbe stato difficile ottenere da una chiesa spagnola un atto che regolarizzasse il matrimonio di mia madre? Con questo pezzo di carta in mano, voi avreste tentato invano di rifiutarmi la parte che spettava a mio padre, non avreste potuto privarmi di una lira. Prima della partenza, ho consultato diversi avvocati spagnoli e tutti mi hanno consigliato di munirmi di un documento di questo tipo e mi hanno indicato il mezzo per procurarmelo. Ebbene, zio, io ho respinto questi consigli e le mie lettere fanno fede delle mie parole: li ho respinti perché ho creduto al vostro affetto e volevo attribuire solo alla vostra giustizia l’eredità che mi spetta.”

“Ma Florita, non capisco perché vi ostinate a credermi ingiusto. Sono forse il depositario dei vostri beni? Avete il diritto di esigere una sola piastra?”
“E sia, zio, visto che vi trincerate dietro all’interpretazione letterale della legge avete ragione e io, come figlia naturale non ho diritto alla successione della nonna. Ma come figlia di quel fratello a cui dovete tutto, non avrei diritto alla vostra riconoscenza? Zio, è ad essa che faccio appello. Io non chiedo né a voi né agli altri coeredi gli ottocentomila franchi che ognuno di voi ha avuto come sua parte, non vi chiedo che un mezzo quarto di questa somma, appena sufficiente per permettermi di vivere in modo indipendente.
I miei bisogni sono limitati, i miei gusti modesti. Non amo il mondo e il suo lusso. Con cinquecento franchi di rendita potrei vivere ovunque libera e felice. Questo dono, zio, esaudirà i miei voti e non voglio doverlo che a voi solo. Vi darò la mia benedizione e non mi basterà la vita per esprimere tutta la mia gratitudine.”

Dicendo queste parole, ero andata vicino a lui. Ho preso una delle sue mani e l’ho premuta forte sul cuore. La mia voce era rotta dal pianto e lo guardavo con un’espressione ineffabile di tenerezza, di ansietà e di riconoscenza, mentre attendevo, tremante, la risposta che egli sembrava meditare.
“Caro zio – ho aggiunto - voi consentite, non è vero, a rendermi felice? Ah! Che Dio vi accordi una lunga vita! La mia felicità e la mia gratitudine la riempiranno di dolcezza e di calma e vi ripagheranno grandemente di ciò che avrete fatto per me.”
Lo zio è emerso dal suo silenzio con un movimento brusco.
“Ma, Florita, come potete pensare una cosa simile? Come credete che possa darvi ventimila piastre? E’ una somma enorme!… Ventimila piastre!”

Mi sono fermata davanti allo zio e, stringendogli forte il braccio e parlando con un tono di voce che non avevo mai usato prima, gli ho detto:
“Così, don Pio, voi respingete a sangue freddo e con premeditazione la figlia di quel fratello che vi ha fatto da padre, al quale voi dovete la vostra educazione, la vostra fortuna e tutto quello che siete?
Per tutta riconoscenza, con quello che dovete a mio padre, voi che avete trecentomila franchi di rendita, mi condannate con freddezza a soffrire la miseria, mi abbandonate agli orrori della povertà e della disperazione, mi obbligate a disprezzarvi. Voi, che mio padre mi aveva insegnato ad amare, voi, il solo parente sul quale riposavano tutte le mie speranze! Ah, uomo senza fede, senza onore, senza umanità, io vi respingo a mia volta, non sono del vostro sangue e vi consegno ai rimorsi della coscienza. Non voglio più niente da voi. Domani tutta la città sarà a conoscenza della vostra ingratitudine verso la memoria di quel fratello che provoca le vostre lacrime ogni volta che pronunciate il suo nome, della vostra durezza nei miei riguardi e del modo in cui avete tradito la fiducia imprudente che avevo riposto in voi.”

Sono uscita dal suo studio e sono rientrata nella mia grande stanza dal soffitto a volta. Ero in uno stato di esasperazione e di sofferenza inesprimibili.
La notte non sono riuscita a gustare un istante di riposo. La febbre mi faceva ribollire il sangue, mi impediva di stare distesa sul letto e di stare ferma. Andavo e venivo nella camera e sono anche stata costretta a uscire in cortile per respirare l’aria fresca del mattino. Che sofferenza era la mia! La mia ultima speranza era distrutta! I membri della famiglia che ero venuta a cercare da così lontano manifestavano tutti le facce dell’egoismo, erano freddi e insensibili alle disgrazie altrui come tante statue di marmo!
Mio zio, al cui affetto mi ero abbandonata, il solo che fosse vissuto con mio padre, dal quale era stato amato e della cui fiducia aveva goduto, si mostrava in tutta l’arida nudità della sua avarizia e della sua ingratitudine! Proprio lui che avrebbe dovuto più di altri compatire le mie sofferenze! È stato uno di quei momenti in cui i mali del mio destino si sono disegnati ai miei occhi in tutta la loro crudeltà.

Ero nata con tutti i vantaggi che eccitano la cupidigia degli uomini, ma essi mi si erano mostrati solo per farmi sentire l’ingiustizia che mi spogliava del loro godimento. Vedevo dappertutto abissi destinati a me, società umane organizzate contro di me, senza la sicurezza di un po’ di simpatia da qualche parte.
“Oh, padre! – ho gridato involontariamente - quanto male mi avete fatto! E voi, madre, io vi perdono, ma la serie di mali che avete accumulato sulla mia testa è troppo pesante per le forze di una sola creatura!”